American Skin Recensione | Dopo le controversie che circondarono la sua persona, facendo cadere la sua opera d’esordio The Birth of a Nation nel dimenticatoio, il regista Nate Parker ci riprova con il film American Skin, portando sul grande schermo un nuovo atto d’accusa nei confronti di quelle forme di razzismo che ancora oggi affliggono la comunità afroamericana negli Stati Uniti. Forme di razzismo che spesso e volentieri si manifestano attraverso l’abuso di potere di quella polizia che dovrebbe invece essere garante di legge e rispetto. Una tematica del genere doveva, anzi pretendeva, di essere trattata con il giusto tatto e rispetto. Qualità che invece sembrano totalmente mancare al regista, che realizza un film sbagliato sotto molteplici punti di vista, tecnici ed etici. Il film segue le vicende di Lincoln Johnson, un padre, interpretato dallo stesso Nate Parker, il quale deluso per la sentenza di un processo non equo a seguito della morte del figlio per mano di un poliziotto bianco, cerca di non soccombere al dolore, ma aspirando invece ad una giustizia per sé, per suo figlio e per il suo intero popolo.
Un abbraccio dai mille significati.
American Skin: La carrellata è una questione morale
Quando il regista e critico Jean-Luc Godard definiva la carrellata “una questione morale”, si riferiva alla celebre inquadratura del film Kapò di Gillo Pontecorvo. Oggi possiamo tranquillamente riprendere quel celebre aforisma per applicarlo al film di Nate Parker. Appare infatti particolarmente fastidioso, nonché eticamente scorretto, il modo in cui il regista sottolinea immagini e situazioni di per sé già drammatiche. Egli costruisce il suo film come un mockumentary, un finto documentario, salvo poi abbandonare progressivamente, e inspiegabilmente, questa modalità di racconto. Attraverso la handycam di un gruppo di ragazzi intenti a filmare il tutto, ci viene illustrata la vicenda del protagonista, la quale si scompone attraverso molteplici schermi e device. Un tentativo di oggettivare quanto si sta raccontando probabilmente, se non fosse che questo espediente viene più volte tradito da un regista che o non se ne cura o crede sia tutto concesso in nome delle tematiche raccontate. Sfortunatamente non è così, e American Skin, già di suo non dotato di un soggetto particolarmente brillante, si ritrova costruito su di una forma che ancor meno riesce a sostenerlo. Appare incomprensibile l’eccessivo utilizzo di una colonna sonora extradiegetica posta su immagini che hanno natura documentaria, e che non dovrebbero quindi essere dotate di simili “abbellimenti”. Una musica che non si comprende da dove arrivi né perché, che sembra avere come unico intento quello di rimarcare la drammaticità delle immagini, generando invece solo un senso di fastidio generale. A sottolineare ancora di più tutto ciò vi sono una serie di movimenti di macchina che rimarcano l’attualità della frase di Godard, poiché non ha senso alcuno sottolineare la morte, estetizzarla, attraverso zoom e carrellate.
Quando il troppo stroppia
Se da un punto di vista meramente tecnico il film evidenzia delle lacune particolarmente gravi, la situazione non appare delle migliori neanche da un punto di vista contenutistico. Attraverso un’inaspettata svolta narrativa, che avviene tra l’altro in modo particolarmente brusco senza preparazione alcuna, il film va a costruirsi per la sua gran parte su di un processo nel quale viene posto sul banco più del dovuto. Nate Parker sembra infatti intenzionato a inscenare un dibattito, ed è proprio quella la piega che prende il film, dove dalla originale causa scatenante del film si arriva ad un più generale scontro sul razzismo a tutto tondo. Dal particolare all’universale, certo, ma qui appare tutto troppo sacrificato, gettato in mezzo senza reali motivi né possibili spunti per una sensata riflessione. Nate Parker sembra bramare la possibilità di smontare le giustificazioni degli altri personaggi, dimenticando però che sarebbe stato più giusto affrontare tali tematiche comprendendo una pluralità di punti di vista. Cosa che, per assurdo, avrebbe potuto forse ottenere se davvero avesse perseguito l’iniziale impostazione documentaristica del film.
American Skin vorrebbe così essere un manifesto contro il razzismo, ma si svela in realtà come il monologo fastidiosamente retorico di un regista a cui, stando a quanto visto, sembra interessare di più mettersi in mostra piuttosto che trattare con il giusto linguaggio una ferita sempre aperta come quella dei soprusi sugli afroamericani. Un film che conferma quanto sia difficile trattare determinate tematiche lasciando parlare la storia, senza interferire con trucchi che invece non fanno che inficiare sul messaggio di fondo. Purtroppo l’equilibrio tra etica ed estetica è spesso complesso da ottenere, e qui semplicemente si scade prepotentemente nel secondo dei due fattori.