Death Stranding | Ieri mattina alle ore 8:30 (italiane) il maestro Hideo Kojima è salito sul palco del Tokyo Game Show per mostrare al pubblico presente (e noi tutti) 49 minuti di gameplay della sua ultima creatura: Death Stranding. Fin dal suo primissimo annuncio all’E3 2016, Death Stranding ha incuriosito con i suoi trailer criptici e poco comprensibili, la presenza di attori importanti, ma soprattutto per un game designer che dovrà riscattarsi dopo la brusca chiusura dei rapporti con Konami e dimostrare la sua visione di autore non più relegata al celebre Metal Gear Solid. Hideo Kojima con questa sua nuova opera vuole proporre un’esperienza peculiare, sottolineando l’importanza e il bisogno degli altri in un mondo in qualche modo totalmente interconnesso. Fino ad oggi, quel poco che era stato mostrato (tra trollate e non) aveva fatto però molto discutere e nemmeno l’ultimo video gameplay è servito a calmare le acque. Si è ormai ricreata un’aura di entusiasmo mista a scetticismo dietro l’ultima fatica del papà di Metal Gear Solid, proprio perché, forse, come affermato dall’autore stesso, non siamo ancora pronti per un’opera così incredibilmente visionaria che osa con coraggio dare un’interpretazione inedita e pionieristica del videogioco. In questo articolo andremo quindi ad analizzare un po’ quanto emerso dalla presentazione di questa mattina e ad alcune considerazioni sulla concezione autoriale di Kojima riguardanti la sua ultima creatura e le sue ambizioni.
Un mondo ostile
Death Stranding: un viaggio intimo e personale
Quel che è emerso in particolar modo dal video-gameplay del Tokyo Game Show non sono tanto le meccaniche stealth, né tantomeno quelle shooting, corpo a corpo o di guida. L’elemento preponderante di Death Stranding è senza alcun dubbio il viaggio di Sam (interpretato da Norman Reedus), ma anche e soprattutto il nostro viaggio; intimo e personale, accompagnato da un racconto che probabilmente non sarà la colonna portante della produzione come poteva esserlo in un Metal Gear Solid, ma che contribuirà a rendere unico ed affascinante l’intero contesto, tanto da spingerci ad affrontare la nostra missione di riconnettere l’America. Per farlo attraverseremo un mondo angosciosamente desolato, silenzioso e afflitto dalla devastazione totale, dovendo fare i conti con la natura e i fenomeni più stravaganti ed ancora inspiegabili. Prima di partire è necessario portare con noi le risorse giuste e utili per la nostra lunga e faticosa escursione. Quello che salta subito all’occhio è come tutto ciò che decideremo di portare sarà presente fisicamente, annullando una volta e per sempre quella sottile linea di surrealismo che vede i personaggi portar con sé un vasto arsenale di cose che non starebbero nemmeno in un veicolo intero. A colpire però non è solo questo, ma anche la gestione del nostro carico e il bilanciamento dello stesso e come Sam sia sempre più lento e goffo nei movimenti a seconda del peso che porterà con sé. Non per altro se decidiamo di caricare il nostro protagonista con un mucchio di roba dovremo anche gestire l’equilibrio di volta in volta durante l’esplorazione, in quanto è facile che perda stabilità col rischio di cascare a terra. Il peso del carico e tutto ciò che affronteremo ed eseguiremo durante il cammino segnerà fisicamente Sam e ogni cosa è soggetto ad usura; dunque toccherà prenderci cura di noi stessi e di ciò che abbiamo equipaggiato. Ecco che diventa quindi necessario portarsi un po’ di stivali di riserva appresso, nel caso quelli indossati dovessero usurarsi troppo, danneggiando i nostri piedi. Death Stranding si avvale di meccaniche puramente survival, un po’ come già visto in Metal Gear Solid 3, ma evolute all’ennesima potenza, con una gestione di gran lunga più realistica, forse anche troppo per qualcuno e che a lungo andare potrebbe persino annoiare alcune tipologie di videogiocatori, ma è altresì innegabile il fascino intrinseco di questa precisa scelta autoriale che dona lustro all’opera grazie ad aspetti mai affrontati in maniera così approfondita sino ad oggi. Abbiamo poi visto Sam raggiungere un avamposto nemico (ammesso che noi interpretiamo realmente i buoni; dopotutto non lo sappiamo), potendo osservare alcune meccaniche ludiche come le fasi stealth e la componente action del titolo. Non si può certo dire che siano la parte più riuscita della produzione, ma è anche vero che Death Stranding non punta a questo e non cerca di essere un action stealth, proprio perché Kojima vuole dare un taglio netto col passato caratterizzato da Solid Snake e compagni. Chiaramente abbiamo comunque soltanto scalfito la superficie, per cui non è detto che attraverso dei potenziamenti o altri elementi ludici il tutto non possa essere comunque meglio approfondito e rifinito. Anche perché in questo gameplay non si è visto moltissimo, se non una marea di granate diverse scagliate contro un boss nella “dimensione parallela”, dopo che Sam è stato catturato dalla strana melma nera che abbiamo potuto vedere in uno degli ultimi trailer. La boss battle ha lasciato anch’essa dei dubbi per la sua apparente semplicità, però sembra pure che Kojima non abbia voluto mostrare tutti gli approcci possibili con la bestia. Da questi punti di vista, Death Stranding è un’opera ancora tutta da scoprire.
C’è qualcosa che però ha colpito più di tutto il resto, persino più della meccanica survival gestionale: la decantata interconnessione. Il buon Hideo Kojima ha spesso ribadito questo concetto ogni volta che ha avuto modo di rivelare qualche dettaglio su Death Stranding; finalmente abbiamo potuto capire qualcosa in più, anche perché il gameplay puntava ad evidenziare proprio questo determinato aspetto piuttosto che il resto. Come abbiamo riportato poc’anzi, il buon Sam deve avventurarsi in un mondo ostile, irto di ostacoli e pericoli, dove l’umanità ormai non fa altro che rifugiarsi. Dovrà quindi sfruttare le risorse che decideremo di portare dalla base, tracciando il percorso del nostro viaggio. Il vasto mondo che ci appare così vuoto in realtà non fa che riempirsi di ciò che noi stessi andremo a creare con la possibilità di metterlo a disposizione di tutti gli altri videogiocatori. Non si è ancora capito bene come funzioni di preciso, ma sembra che raggiungendo degli appositi bunker questo faccia sì che venga sbloccata in quella porzione della mappa ciò che gli altri hanno lasciato. Un viaggio che all’andata si rivela solitario, ma che al ritorno affrontiamo da un’altra prospettiva, potendo avvalerci delle risorse o aiuti rilasciati dagli altri giocatori interconnessi. Un vero multiplayer asincrono che con la sua natura gestionale va a ricreare a tutti gli effetti il mondo di gioco di Death Stranding. Nelle fasi iniziali Sam non ha che pochissime risorse, come la scala o la corda, ma in una fase del gameplay abbiamo visto un intero ponte costruito da qualche altro videogiocatore, permettendo al protagonista di attraversarlo con la sua moto e raggiungere quindi un punto altrimenti invalicabile a bordo del proprio veicolo. A dar maggior risalto alle interazioni degli utenti ci pensa un sistema di apprezzamenti molto simile ai like dei social network, per certi versi; un modo per dimostrare gratitudine a qualcuno che nemmeno conosciamo ma di cui abbiamo avuto bisogno. Perché l’importanza di Death Stranding, la filosofia ludica è tutta racchiusa in questo particolare aspetto. L’interconnessione gioca un ruolo fondamentale, perché ognuno ha bisogno dell’altro. Ci faremo strada da soli, affronteremo la solitudine in un viaggio totalmente intimo e personale, ma dovremo anche avvalerci delle risorse e degli aiuti lasciati dagli altri e quest’ultimi, di conseguenza, avranno bisogno comunque di noi e delle nostre interazioni nel mondo di Death Stranding. Un concetto che è difficile non definire affascinante e peculiare. Un qualcosa che rende l’esperienza in qualche modo anche più appagante di un classico titolo multiplayer cooperativo. Hideo Kojima è riuscito a ricreare un qualcosa di complesso, ma che difficilmente emerge se non si ha ben in chiaro la sua visione e ciò che vuole trasmettere, nonché l’esperienza che vuole offrire. Dopotutto, anche se si tratta di un open world, le storie che vengono narrate e il modo in cui si esplora questi mondi non è detto debbano perseguire una linea precisa e unica. Non per altro sono mondi dove l’autore imbastisce la sua determinata visione e non è detto possa sposare i gusti di tutti, specie quando si prova a fare qualcosa di nuovo e caratteristico.
Momento da brividi
Game design e visione dell’autore
Death Stranding non è un gioco per tutti, ormai è chiaro. Hideo Kojima ha avuto il coraggio di rischiare, proponendo un titolo che inevitabilmente dividerà in due il mercato. Volutamente non è un prodotto accessibile, i ritmi si riveleranno decisamente lenti e molti addirittura potrebbero non comprendere l’essenza di un’opera caratterizzata da una forte autorialità di fondo. Quante volte ci si lamenta di mancanza reale di innovazioni, che il mercato è ormai saturo delle solite produzioni e che i grandi publisher non rischiano mai. Arriva il celebre game designer nipponico, fa tutto quello che da tempo viene richiesto a gran voce e il risultato è una lamentela? Qualcuno sostiene pure che un titolo del genere non avrebbe fatto così tanto scalpore se non ci fosse stato un volto illustre come Kojima. Però è anche vero che proprio perché si tratta di Kojima che stiamo parlando di un’esperienza del genere. La fama non arriva dal nulla e se l’è costruita con capolavori che hanno segnato l’intera industria videoludica, quindi è chiaro che un suo nuovo titolo susciti interesse dapprima di saperne qualcosa in più in merito, proprio perché siamo consci di chi ci sta lavorando. E al di là della risposta del pubblico, Death Stranding dimostra il game designer e l’autore che è Hideo Kojima. Nessuno sarebbe stato in grado di realizzare qualcosa del genere, altrimenti ci sarebbe arrivato qualcun altro, prima. Ci ritroviamo dinanzi ad un gioco che potenzialmente ha tutte le carte in tavola per dare un’ulteriore svolta al settore, costruita su un concept per certi versi atipico e peculiare, basando l’esperienza sul viaggio intimo del giocatore, sulle difficoltà che troverà dinanzi al suo cammino e all’interconnessione e interazione con gli altri. Un mondo che non va esplorato, ma perlustrato; in maniera atipica rispetto a tutti gli open world, Death Stranding piuttosto che incitare all’esplorazione fa esattamente il contrario, vuole che il giocatore non sprechi le sue risorse. Un mondo che non cerca di distrarre con incarichi e tante faccende secondarie, ma che spinge a trovare il percorso giusto per raggiungere la metà del viaggio. Se qualcuno ci vede noia e un mondo vuoto con poche possibilità di approccio non vuol dire che automaticamente Death Stranding sia un guscio vacuo o un simulatore di corriere, in quanto questo significherebbe non guardare oltre la superficie. Un’esperienza, qualsiasi tipo di esperienza, è fatta di profondità, di temi, di visioni che l’autore dà in pasto ai fruitori e che non devono adattarsi per forza ai gusti di chi ne usufruisce, se no l’autore non sarebbe tale. Un game designer può anche creare un gioco in cui girare a zonzo in una stanza, quel che conta non è a chi piaccia e a chi no, ma come l’esperienza venga contestualizzata alla base del contesto ricreato e del messaggio che si vuole trasmettere ai videogiocatori. Di Death Stranding non sappiamo ancora nulla di concreto, abbiamo solo visto parte di un potenziale incredibile. Dovremmo valutare quanto visto alla base di ciò che è e non dei propri gusti. Quelli devono solo influenzare il nostro interesse che può essere anche nullo nei confronti di un’opera apparentemente pionieristica come quella di Hideo Kojima. Ognuno ha infatti il sacrosanto diritto di esprimere il suo dissenso non acquistando il prodotto, ma un giudizio andrebbe esposto sulla base dei fatti, non dei gusti. E se Death Stranding si rivelerà tutto fumo e niente arrosto saremo i primi a sostenerlo. Però guardiamo anche un po’ oltre la nostra visione, poiché definire l’ultima fatica del papà di Metal Gear Solid il nulla cosmico è assolutamente un’eresia. Per alcuni cullare il Bridge baby, cantargli la ninna nanna e tutto ciò che ne consegue potrebbe rivelarsi un elemento noioso; sì, ma per i propri gusti. Nel concreto dimostra invece un tipo di interazione importante e che può avere risvolti curiosi nel gameplay, soprattutto perché ancora non è chiarissima la loro funzione nel contesto dell’opera e nel comparto narrativo (al momento possiamo supporlo, e sarebbe superfluo farlo). Tanti sono ancora i dilemmi, ma di sicuro troveranno risposta l’8 novembre, quando potremo finalmente mettere tutti le mani su Death Stranding. Checché se ne dica, l’intimità del viaggio, il senso di appagamento scaturito dal raggiungimento della propria meta, l’esplorazione atipica per un open world, la musica che fa da sottofondo in alcuni momenti specifici, donano una poetica impressionante ad un titolo che fa del suo gameplay soprattutto l’esperienza e, per l’appunto, il viaggio; l’interconnessione. Ogni autore è e deve essere libero di costruire un game design secondo la propria visione, perché i videogiochi non sono equazioni matematiche e nemmeno tutti catalogabili in bianco o nero. I videogiochi sono realizzati secondo processi creativi e artistici ben precisi, per cui rappresentano la visione di un autore che prima di tutto è un essere umano con dei sentimenti, proprio come noi.
Death Stranding si è mostrato in quarantanove minuti abbondanti di gameplay che hanno fatto molto parlare di sé. L’opera di Hideo Kojima è volutamente fuori dalle righe e non adatta a tutti, perché sceglie la via più difficile e coraggiosa: quella autoriale. Il maestro ha deciso di proporre una visione tutta sua di intendere il videogioco e ora ciò che bisogna capire è se le premesse vengano mantenute e se i dubbi sulle meccaniche ludiche e sulla narrazione siano fugati. Rimane però innegabile che il video-gameplay ammirato ieri mattina sia pregno di potenzialità e di una concezione pionieristica di esperienza videoludica. Il viaggio di Sam potrebbe essere la più grande rivoluzione mai vista sino ad oggi negli ultimi anni, ma anche un preoccupante falso storico. Ci riserviamo comunque di avere fiducia nell’autore giapponese, consci che quello che ha mostrato al Tokyo Game Show vada oltre ciò a cui siamo da sempre abituati. Death Stranding non piacerà a tutti, ma cerchiamo di capire le volontà dell’autore e la sua visione, evitando magari di appellare definizioni che il gioco non merita, perché il potenziale c’è ed è semplicemente incredibile (si spera che appunto venga sfruttato). Presto tutti coloro che decideranno di dar fiducia all’opera si interconnetteranno a vicenda, dando vita alla visione di Hideo Kojima; e questa non è forse una cosa bella?