Quando si parla di Hideo Kojima, molti tirano fuori il peggio di sé. Di conseguenza, credo che una breve disclosure preliminare, da parte mia, sia necessaria. Lavoro come professionista del giornalismo specializzato dall’ormai lontano 2000, pertanto mi trovai a vivere in prima persona in Redazione il lancio di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty, che all’epoca era il titolo più atteso al mondo, su qualsiasi piattaforma. Ebbene, credo che la storia la ricordiate tutti. Sons of Liberty stupì il mondo, e per molti – tra critica e pubblico – non in senso positivo. Quella recensione non venne affidata a me, che peraltro ero al tempo il referente redazionale del mondo Nintendo, ma mi schierai a favore dei detrattori, commentando in maniera critica quel titolo di Kojima-san. Il tempo mi portò a maturare, a elaborare un giudizio differente e, diciamolo, a cambiare radicalmente, diametralmente idea, riconoscendo in Metal Gear Solid 2 il più grande Capolavoro del Maestro Kojima, nonché una delle opere interattive più intelligenti, profonde e di impatto mai realizzate.
Perché questo verboso preambolo? Per certificare, prove alla mano (è tutto scritto, nero su bianco, sulle vecchie e ormai consunte pagine di Game Republic), il mio essere ormai da tempo immemore un kojimiano convinto. E, partendo da questo status, per poter affermare che su Death Stranding qualche riserva la ho. Sarò chiaro: non si tratta di dubbi tali da farmi affermare che ho un’opinione negativa del titolo in questione, che sono certo segni a suo modo la storia (travagliata) di questo nostro strano e mutevole medium, ma sufficienti ad avermi fatto decidere ineluttabilmente di affidare al mio amico, allievo e vicedirettore Guglielmo la recensione di Death Stranding, giocato fianco a fianco, sedia a sedia, dalla schermata dei titoli al finale. Eh già, perché il mio problema è che Death Stranding non l’ho ancora capito abbastanza, il che, a ben pensarci, è già un grandissimo complimento, uno dei migliori. La grandezza è spesso complessità, specie quando un’opera sceglie di mostrarsi ma non troppo, come fa Death Stranding. Se devo partire da un punto, è senza dubbio questo: Death Stranding sta a Metal Gear Solid come il ciclo di Luce Virtuale di William Gibson sta a quello di Neuromante. Peggiore? Forse. Più maturo? Possibile. Certamente più minimal, ma ehi… il diavolo è nei dettagli.
Il gameplay dell’ultima opera di Hideo Kojima è originale, sorprendente ma al tempo stesso sfiancante. Simulatore di fattorino? Già, perché no? Un mondo geo-centrico che a me ha fatto pensare molto alla centralità urgente e contemporanea dell’ecologia, tanto che non mi sarei stupito di scoprire un cameo della giovane Greta Thunberg. Le relazioni sociali, il gradimento, il consenso come plastiche sussunzioni dei vincoli molecolari, delle catene alimentari, delle complesse dinamiche biologiche. Poi Kojima è Kojima, alla faccia dei poveri di spirito che poco o nulla capiscono della sua opera, e sa investirci come pochi con la sua travolgente estetica e poetica, come dimostra la colonna sonora e l’uso che l’Autore e Regista ne fa. Unico, impagabile. Chapeau.
Ciò detto, le meccaniche di gioco mi hanno anche lasciato perplesso. Se da un lato ho giustificato – anzi: amato – le volutamente infinite cavalcate di Red Dead Redemption 2, resto per ora scettico sul gameplay che è il cuore di Death Stranding, tuttora incapace di dire con certezza se in effetti mi annoia, se a tratti mi indispone o se, il che resta plausibile, mi sfida a entrare meglio e più a fondo in un mondo post-apocalittico così diverso dal solito, così fuori da cliché pur evocati. Quel che invece mi disturba senza dubbio è il protagonista, un attore che non amo e che non avrei voluto in Death Stranding, ma questo è un personalissimo giudizio, privo di alcun valore; un po’ meno lo è il giudizio sull’utilizzare o meno un volto del cinema o della televisione come eroe di un videogioco, scelta che non mi ha quasi mai convinto e che, specie se fuori da un modello rigidamente cinematico a la Wing Commander (stacco forte tra sequenze di gioco e momenti recitati), trovo di norma fallimentare. Nulla da eccepire, però, sull’impianto narrativo.
Kojima è Maestro, vero e indiscutibile: credo andrebbe criticato di meno e studiato di più, ma lo affermo provocatoriamente, da sostenitore indefesso del libero pensiero e della soggettività del giudizio critico. Le ultime parole le spendo sul doppiaggio, che è stellare e che mi fa pensare a certi film che, visti in italiano, sono ancora più belli.