Intervista a Swery, da Deadly Premonition a The Missing: “non smetterò mai di creare videogiochi”

Swery

Nel corso dell’appena trascorso Gamerome, la conferenza per gli sviluppatori di Roma, il sottoscritto ha avuto modo di scambiare quattro chiacchiere con Hidetaka Suehiro, meglio conosciuto con il suo pseudonimo, Swery (o Swery65). Se nemmeno questo nome vi dice nulla, sappiate che stiamo parlando di uno fra gli autori più importanti e particolari – soprattutto particolari – dell’industria dei videogiochi: dopo gli inizi legati principalmente al genere dei picchiaduro in SNK, infatti, Swery si è subito imposto come uno dei pochi creativi giapponesi capaci di marchiare ogni loro opera con una indiscutibile firma autoriale. Pur non avvicinandosi mai – né ambendo – a una struttura priva di vizi di forma, i suoi videogiochi sono sempre diventati, nel corso del tempo, dei prodotti di culto, da Spy Fiction all’ultimo The Missing: JJ Macfield and the Island of Memories, passando per Deadly Premonition e D4: Dark Dreams Don’t Die. Tutti quanti, peraltro, avendo in comune la volontà di raccontare storie cupe e originali, fatte di atmosfere surreali e personaggi problematici, spesso con una certa vena soprannaturale. Consapevoli di avere di fronte un personaggio geniale e a modo suo anche parecchio eccentrico, gli abbiamo quindi rivolto qualche domanda focalizzata principalmente sulle sue velleità creative.

Swery

Prima di tutto, come ti vengono le idee per creare i tuoi videogiochi? Hai un “pattern” specifico in mente o ti senti totalmente libero?

Volete la risposta seria o quella divertente, per cominciare?
Quella divertente!
Quando mi sveglio la mattina e vado in bagno! [ride] Nel mentre gioco anche a Pokémon GO, quindi unisco l’utile al dilettevole.

Per quanto riguarda The Missing, pensi di aver insegnato qualcosa alle persone che ti seguono con quel progetto? E di avere, in un certo senso, un impatto sociale sulle persone in generale?

In The Missing il personaggio principale, JJ, è una ragazza dal passato difficile, in cui ha sofferto molto ed è stata oggetto di molestie. In un certo senso ho voluto raffigurare in un videogioco qualcosa che praticamente chiunque ha vissuto nella sua vita, e spero che giocandolo vi siate ritrovati almeno un minimo in quello che è successo alla protagonista, anche leggendo i messaggi che riceve sul suo cellulare. Non so se il mio proposito iniziale fosse quello di insegnare qualcosa, ma in generale spero che voi ne abbiate tratto qualche insegnamento, che abbiate scoperto e accettato una parte di voi stessi. Mia moglie, per esempio, è molto bassa, e dopo aver giocato The Missing si è resa conto che, in piccola parte, il videogioco parlava anche di lei, e in qualche modo le è servito di lezione.

Quanto di “te” c’è nei tuoi videogiochi? Cosa li rende “opere realizzate da Swery”?

[ride] Posso rispondervi in percentuali: c’è un 80% di Swery ubriaco (gli piace molto bere, tant’è che anche durante la nostra chiacchierata sorseggiava un bicchiere di vino italiano, n.d.r.), un 5% di Swery “normale”, un 5% di Swery che lavora in modo meccanico e automatico e l’ultimo 10% è fatto di (e qui non siamo sicuri di aver capito bene, n.d.r.) spiritelli e fatine che volano.

Nel tuo modo di lavorare, cosa pensi di aver imparato dai tuoi esordi nell’industria e cosa invece è rimasto uguale a prima?

Quand’ero giovane pensavo che non ci fosse nulla di male nell’offendere o far male a determinate persone per rendere un videogioco apprezzabile da una certa nicchia di pubblico. Ora, invece, il mio principale desiderio è quello di non offendere nessuno in alcun modo, ma il problema è che i miei videogiochi hanno sempre quel qualcosa di particolare che finisce per far male – metaforicamente parlando – a certe persone. È un problema filosofico, per certi versi. Chissà, magari alla fine finirò come Gandalf.

In quale direzione pensi di voler andare dopo la fondazione di White Owls? Continuerai a realizzare videogiochi fortemente autoriali ed “eccentrici” o cambierai stile, un giorno?

Vorrei semplicemente continuare ad avere, in ogni situazione io mi trovi, la possibilità di creare videogiochi finché voglio e finché campo, dato che è quel che davvero mi piace fare nella vita. White Owls è un ottimo modo per poterlo fare. Vedo ogni videogioco come una nuova esperienza, un altro “strato” in quello che è il mio bagaglio complessivo: se in un futuro vicino o lontano dovessi cambiare il mio stile andrebbe benissimo anche così, perché saprei comunque che i miei videogiochi resterebbero unici, prima di tutto perché a realizzarli sono io. E non lo dico perché mi ritengo chissà quanto importante, ma per pura logica: una persona può cambiare le sue vedute, ma non può cambiare il suo vissuto e il modo in cui le scelte che ha fatto nella vita l’hanno segnata.

Nei tuoi videogiochi esistono aspetti che consideri più importanti e altri che, magari, curi di meno? Qual è la “salsa segreta” che ci aggiungi, se ce n’è una?

La cosa più importante, quando si parla di game design applicato a un videogioco, è far si che i giocatori non posino mai il pad. E non è soltanto una questione di gameplay. Prendete un film, dove non c’è interattività: lo spettatore è un elemento passivo, può interessarsi e giudicare quel che vede, ma rimane sostanzialmente inerte mentre guarda. In un videogioco è diverso, funziona un po’ come un libro, in cui ogni tanto devi compiere l’azione meccanica di girare le pagine. Noi, quindi, siamo un po’ come gli autori di un libro. Ci sono libri molto belli, che divori dall’inizio alla fine, e libri che ti annoi di leggere e che posi dopo due capitoli. Lo stesso vale per i videogiochi. Non basta che l’inizio e la fine siano coinvolgenti, bisogna far sì che il giocatore abbia sempre voglia di scoprire cosa lo attenderà dopo.

Pensi ci siano dei generi che trovi più adatti di altri e utilizzi più spesso o trovi che la questione di genere non sia importante? Noi, su Gamesvillage, abbiamo spesso battagliato per il superamento dei “generi”, spiegando che è più importante il “messaggio” che ogni videogioco, a modo suo, vuole comunicare che l’effettivo modo in cui viene realizzato. Tu che ne pensi?

Penso abbiate ragione! Io non ho mai pensato al “genere” in cui incastonare i miei videogiochi, in nessuna fase del processo di sviluppo. Per me è tutta una questione di meccaniche (anzi, di buone meccaniche, nello specifico!) e dell’esperienza che l’autore riesce a offrire al giocatore che sta al di là dello schermo.

Per concludere, due domande che sento davvero mie, personali. La prima: nel corso del tempo ho notato che ognuno dei tuoi videogiochi ha elementi di unicità e che sono tutti, nessuno escluso, l’uno molto diverso dall’altro. C’è qualcosa che mantieni, ogni volta, nel processo creativo, o riparti completamente da zero?

In un certo senso, penso alla mia “ludografia” come a una lunga linea di videogiochi che voglio realizzare, dal momento in cui ho cominciato a quello in cui smetterò. In realtà non penso molto a quanto siano simili o diversi, semplicemente comincio a crearli e vado avanti così, pensando al modo migliore per farli funzionare. E se questo modo implica il prendere qualcosa dal passato, lo faccio; in caso contrario, cancello tutto e ricomincio. Questo sicuramente vale per le storie che scriviamo in White Owls, mentre per le meccaniche può capitare che alcuni miei videogiochi abbiano elementi in comune. Prendete, per esempio, Deadly Premonition, D4 Dark Dreams Don’t Die e The Missing: a primo impatto sembrano tutti diversissimi l’uno dall’altro, ma se si va a scavare in profondità si può trovare più di qualche elemento in comune. Forse, la mia vera firma autoriale sta nel fatto che ci vuole un po’ per trovarla in ogni mio videogioco! [ride]

Seconda (e conclusiva) domanda. Personalmente adoro le musiche che inserisci nei tuoi videogiochi, a partire dalla soundtrack di Deadly Premonition per arrivare a quella di The Missing (le trovate sparse per l’articolo, n.d.r.). Come fate a realizzarle? Tu sei coinvolto nel processo?

Questa è una domanda che non mi viene rivolta tanto spesso, in realtà, ti ringrazio! Generalmente, specie da quando è nata White Owls, affido le colonne sonore ad un team esterno. Per esempio, nel caso di The Missing, la principale compositrice è stata kidlit, affiancata da un intero team di tecnici del suono. Ma il fatto che io non vi lavori direttamente non significa che non me ne interesso, anzi, ritengo la musica una componente fondamentale dell’esperienza. Idem per quanto riguarda Deadly Premonition, non sarebbe lo stesso gioco senza la sua colonna sonora. E personalmente, fra quelli che mi vengono proposti, cerco sempre di scegliere brani che si adattino al contesto.

Nato nello scorso millennio con una console fra le mani e rimasto per molti anni confinato nel mondo distopico della Los Angeles del 2019, ha infine deciso di uscirne per divulgare al mondo intero le sue più grandi passioni: il videogioco in tutte le sue forme, il cinema (quello vero) e Dylan Dog.