“La vita è come schiuma sull’acqua, e al mattino non è possibile sapere se arriverà alla sera, ma ti prometto che tornerò”
Ueda Akinari, L’appuntamento dei Crisantemi, da Racconti di pioggia e di luna, 1768
Game over. Sei morto. Quante volte abbiamo letto queste scritte sul nostro schermo, dopo un parry dal timing sbagliato contro quell’antipatico Uomo Serpente nella Fortezza di Sen o un incontro ravvicinato con l’Alito fetido di un Molboro? L’irritazione iniziale – o, in alcuni casi, il lancio del controller – è un sentimento normalissimo per il giocatore, in questi casi. Basta premere un tasto per ricominciare dall’ultimo checkpoint, in fondo… E in alcuni videogame non c’è nulla di che preoccuparsi, visto che un lapidario “sei morto” non è possibile: basti pensare al frizzante Untitled Goose Game, dove nessuno sognerebbe mai di far fuori un’oca che ha solamente rubato un paio di scarponi (se solo quel contadino sapesse di quali nefandezze siamo capaci!). Dopo la nostra morte virtuale non sempre ci capita di fermarci a riflettere sul perché del successivo ritorno alla vita nel mondo di gioco. Perché il non morto si risveglia al falò? Come è possibile che Auron non sia nell’Oltremondo dopo l’incontro fatale con Yunalesca? Perché il nostro fattorino post-apocalittico torna dagli abissi della morte?
Auron – Final Fantasy X
“Ora! Questo è il momento di scegliere! Morire ed essere liberati dal dolore, o vivere affrontandolo! Il destino è nelle vostre mani!”
Final Fantasy X è un’opera densa di contenuti e suggestioni, dove l’ispirazione culturale giapponese è profondissima: basti pensare al mondo di gioco, Spira, dove vita e morte si susseguono in un eterno ciclo di matrice buddhista, dominato da Sin, mostro apparentemente invincibile. Sin, infatti, può essere sconfitto solo per brevi periodi, chiamati “Bonacciale” (in inglese Calm) dalla popolazione locale. Non manca chi sogna di spezzare questa ruota di dolore e sofferenza: l’invocatore Braska, insieme ai guardiani Jecht e Auron, si scontra però contro i dogmi di Yevon, la religione che ha convinto il popolo che Sin fosse la necessaria espiazione per i peccati degli uomini. Yunalesca, prima invocatrice a portare il Bonacciale sconfiggendo Sin, convince Braska e Jecht a sacrificarsi per il bene di Spira; i due chiedono ad Auron di prendersi cura dei loro figli, Yuna e Tidus, ma Auron, che non riesce ad accettare la morte dei due amici, viene ucciso a sangue freddo da Yunalesca.
Questi eventi vengono magistralmente narrati nel corso della nostra partita attraverso cutscene e dialoghi dei personaggi, e il giocatore viene a conoscenza piuttosto tardi di un dettaglio non trascurabile: Auron – membro del party di Tidus e Yuna – è in realtà già morto. Ciò non ha influenza diretta sul gameplay di gioco, caratterizzato dai game over con successivo risveglio di Tidus e soci all’ultimo checkpoint – in caso di incontri ravvicinati con Molboro arrabbiati, come si ricordava sopra -, ma è un punto essenziale nella trama di Final Fantasy X, ed anche un punto di contatto brillante con uno dei capolavori più commoventi della letteratura giapponese, L’appuntamento dei crisantemi di Ueda Akinari, dove un samurai catturato dal nemico e così impossibilitato a raggiungere un suo amico nel giorno prefissato per il loro incontro si uccide, per poter incontrare l’uomo come fantasma e onorare la parola data. Una volta fatto ciò, il fantasma del samurai scompare per sempre: ha compiuto il suo on.
Nella cultura giapponese si parla di on per descrivere il debito verso una o più persone che hanno fatto per noi qualcosa di davvero grande. Si ha un on verso i propri genitori, verso l’uomo che si è preso cura del samurai quando era malato, o, nel caso di Auron, verso Braska e Jecht, che si sono sacrificati per lui e per la gente di Spira. L’on porta il defunto ad andare oltre la morte stessa per restituire il favore ricevuto e rispettare la parola data: la morte nulla può contro Auron, finché deve rispettare la promessa di prendersi cura di Tidus e Yuna, e la sua personale risoluzione di porre fine alle sofferenze portate da Sin. Auron vuole colmare una lacuna, portare a termine ciò che in vita non è riuscito a compiere. Il nostro compito come giocatori è quello di ascoltare la sua storia e farla nostra, aiutandolo nel suo viaggio come lui aiuta noi. Compiuto il suo dovere, il guerriero leggendario trova la pace, in un finale di gioco tra i più commoventi e riusciti della storia del medium videoludico.
Il non morto prescelto – Dark Souls
“E tra i viventi si distinguono i portatori del maledetto Segno Oscuro. Sì, invero. Il Segno Oscuro marchia i non morti… e questa terra. I non morti vengono radunati e condotti a nord, dove sono rinchiusi in attesa della fine del mondo. Questo è il tuo destino…”
Abbiamo parlato delle vicende di Spira, che fin dal suo nome richiama la circolarità di un ouroboros – l’antico simbolo del serpente che si morde la coda in un cerchio senza soluzione di continuità -, ed il cerchio è anche forma del Segno Oscuro che marchia i portatori della maledizione della non morte, presente nel mondo degli uomini nei videogame From Software più amati dal pubblico: la serie di Dark Souls. In Dark Souls il nostro avatar è un non morto, chiuso nella cella di una fredda prigione. Saremmo destinati senza dubbio ad una triste fine, non fosse per l’aiuto di un cavaliere, Oscar di Astora, che ci fornisce la chiave per uscire. Non solo: Oscar ci dà anche una missione, parlandoci della leggenda del non morto prescelto, che ci spinge ad arrivare fin nella terra degli dei, Lordran. Da tristi esseri pressoché vuoti (e la vuotezza è un concetto fondamentale in Dark Souls, come vedremo) siamo ora dei non morti con uno scopo: è tutto merito di Oscar, personaggio che forse avrebbe meritato tutt’altro approfondimento e rilevanza, essendo purtroppo “so easily forgotten” da parte di molti giocatori. Come è noto, sono in molti a ritenere i titoli di From Software criptici e poco chiari nella spiegazione della trama, al punto che alcuni ritengono che una trama non vi sia del tutto, ma abbiamo visto che già le prime battute del gioco sono dense di significato e di indizi per chi sa ascoltare la voce elegante di Dark Souls, mai scontata e sempre ricca di spunti.
Il valore aggiunto del nostro non morto è evidente sin dall’incontro – il primo all’arrivo a Lordran – con il Crestfallen Warrior. Sfiduciato, pessimista, questo cavaliere schernisce ogni nostro successo, per poi approdare, alla fine della sua questline, alla follia e quindi alla vuotezza. Lo stato di hollowing è quanto di peggio possa accadere ai non morti, che possono addirittura giovarsi della loro condizione – come la mercante, poco lontana dal Crestfallen, che è entusiasta di essere non morta! – fino a quando riescono a mantenere il senno; la vuotezza segna invece un punto di non ritorno, dove la prossima morte sarà quella vera e definitiva. Nel nostro viaggio incontriamo numerosi NPC dalle storie spesso significative e commoventi: una delle più amate dalla community è senz’altro quella del coraggioso Siegmeyer di Catarina, un uomo tutto d’un pezzo, buffo nella sua armatura a forma di cipolla, ma generoso e protettivo verso i deboli. Aiutarlo in ogni circostanza (chi non lo ricorda con affetto, seduto e disperato sugli scalini della Fortezze di Sen?) è istintivo per il giocatore, che non può che provare simpatia per lui. Troppo tardi scopriamo di essere stati la causa della sua vuotezza: Siegmeyer perde la sua ragion d’essere per colpa nostra, volendo aiutarci in ogni modo, mentre siamo sempre noi a dargli una mano nei momenti di difficoltà; il cavaliere non riesce a realizzare la sua missione di vita, e diventa un essere vuoto, per poi essere ucciso un’ultima volta da sua figlia Sieglinde.
Quanto a noi, il non morto prescelto, continuiamo a risvegliarci all’ultimo falò visitato, in un eterno ritorno che può interrompersi solo con la conclusione del gioco – che ci chiama ad una scelta importante -, o con la nostra resa, spegnendo il PC o la console, dinanzi alla difficoltà di un titolo che allontana il giocatore occasionale ma premia senza riserve il gamer paziente che desidera profondamente perseguire il suo obiettivo, e quello del chosen undead.
Sam Porter Bridges – Death Stranding
“Non è questo ciò che tu aspettavi fin dall’inizio? Un game over?”
Titolo di recentissima uscita, la prima fatica di Kojima Productions si rivela attinente al nostro tema fin dal titolo: Death Stranding tiene fede al suo nome, e si dimostra un’opera dal forte carico emotivo e culturale nel suo approccio alla morte come fenomeno dalle molteplici valenze.
In un non meglio precisato futuro, l’America e il mondo si trovano ad affrontare una realtà difficile e misteriosa: i confini tra vita e morte si sono assottigliati, e i morti hanno una fortissima connessione con il mondo dei vivi. L’umanità si è ormai ridotta a vivere in città e rifugi sotterranei, e solo alcuni uomini coraggiosi hanno il fegato di percorrere le lande desolate di un mondo inospitale e pericoloso. Sam Porter Bridges, il protagonista, è uno di questi: è un corriere – e ciò ha portato molti utenti a chiedersi scherzosamente (a volte con scherno verso il creatore, non amato da tutta la community videoludica) se questo gioco fosse un Amazon simulator, privo di un gameplay realmente vario e stimolante. La critica si è divisa, ma non è questo l’argomento del nostro articolo; basti sapere che, anche in questo caso, il titolo è una vera e propria miniera di riferimenti culturali, spaziando da suggestioni relative all’Antico Egitto al culto di pellicole tanto celebri quanto introvabili a seguito del fenomeno dl Death Stranding, recanti messaggi di connessione in stretta sintonia con lo spirito del gioco, come I sette samurai di Kurosawa Akira.
Le creature arenate (in inglese beached things) sono uno degli elementi più pericolosi per Sam e per la società americana in generale. Senza entrare nello specifico, l’incontro tra esseri umani e creature arenate può generare delle voragini capaci di devastare il mondo di gioco e uccidere chiunque si trovi nelle vicinanze; Sam, tuttavia, ha un potere molto particolare: riesce a tornare indietro dalla morte. I collaboratori della Bridges – la società di consegne per cui Sam lavora, e che desidera riconnettere l’America straziata dal Death Stranding – definiscono Sam un riemerso (in inglese repatriate). Il processo vede l’anima del protagonista ricercare nell’abisso marino il corpo fisico di Sam, per riconnettersi ad esso; l’accesso al mondo dei morti, infatti, avviene tramite una Spiaggia, dove i morti camminano fino ad immergersi nelle acque profondissime dell’Abisso. La simbologia che lega l’acqua alla morte è fortissima in molte culture, tra cui quella azteca, dove si riteneva che l’entrata per il Mictlàn fosse proprio nei corsi d’acqua sotterranei.
Il riunirsi dell’anima al corpo di Sam ci porta al concetto di anima e di morte presso gli antichi Egizi. Il corpo era visto come contenitore dell’anima, e chiamato Ha; si riteneva che l’anima fosse scomponibile in più parti, tra cui il Ka era il vero e proprio principio spirituale dell’uomo, la parte più profonda della sua anima: dopo la morte di un uomo il suo Ka vagava nell’oltretomba, per poi ricongiungersi ogni sera al corpo del defunto, il suo Ha. Era questa la vera ragion d’essere del complesso processo di mummificazione ideato dagli Egizi, finalizzato proprio a consentire la riunione di anima e corpo, per il conseguimento di una vita eterna. Certamente le fatiche del fattorino Sam hanno più i connotati propri di un’avventura nel soprannaturale che quelli delle ordinarie peripezie del nostro corriere di fiducia: se cercate spunti di riflessione e interessanti rimandi culturali, il titolo di Kojima Productions è ciò che fa per voi. Le interviste – vero e proprio codex di gioco da leggere nei momenti di riposo in-game – forniscono utilissimi insight nell’America del Death Stranding, che a tratti ricorda le visioni post-apocalittiche di Deus Irae di Philip K. Dick e Roger Zelazny.
Anche in Death Stranding, quindi, si ha una spiegazione convincente del nostro ritorno al mondo di gioco dopo un incontro particolarmente ravvicinato con le creature arenate. C’è un vero e proprio game over? Per rispondere a questa domanda vi consigliamo di giocare l’ultima fatica di Kojima, densa di tematiche attuali e concrete, che portano il giocatore a riflettere sulla nostra società e le nostre connessioni.