Da quando il primo episodio di Life is Strange 2 è arrivato sul mercato, nel settembre del 2018, il sottoscritto non ha mai fatto mistero di essere tra i più perplessi riguardo la nuova stagione dell’avventura di Dontnod Entertainment. Non che avessi perso la fiducia nello studio d’oltralpe, intendiamoci, né tantomeno in una serie che da quattro lunghi anni mi (e ci) regala emozioni molto forti: le mie rimostranze, più che altro, riguardavano la narrativa in sé e per sé, incentrata attorno a un paio di idee che ho faticato a farmi piacere.
Venendo dall’ottimo Wastelands, un terzo episodio che fino a questo momento, paragonato ai sonnacchiosi predecessori, è stato indiscutibilmente l’apice di una serie in costante crescita, le mie speranze per il quarto – intitolato Faith – erano comunque più che vive, malgrado un livello medio nel complesso sempre inferiore – e non c’è mai stato nulla da fare in merito – rispetto ai fasti di qualche anno fa. Ciò, attenzione, non significa che Life is Strange 2 non possa migliorare man mano che ci avviciniamo al finale: lo scopo di questo quarto capitolo, in effetti, era proprio quello di fare da traghettatore, nel modo migliore possibile, verso il prossimo dicembre. Peccato che, per la gran parte, stenti a riuscirci.
N.D.R. Com’è ovvio, non proseguite nella lettura della recensione se non avete giocato Roads, Rules e Wastelands.
Dov’eravamo rimasti…
In precedenza avevamo lasciato i due fratelli Sean e Daniel Diaz nel bel mezzo delle foreste dell’Oregon, come braccianti in una piantagione di erbe illegali e inseriti in un gruppo di ragazzi di strada: qui i due fratelli si sono fermati per diverse settimane, facendo diverse conoscenze e – nel caso del maggiore, Sean – le prime esperienze sentimentali, in una rete di sottotrame che sembrava potersi sviluppare con una certa verve, indirizzando i due episodi conclusivi verso un percorso narrativo ben preciso. E invece è accaduto l’impensabile: quello del finale di Wastelands è stato un turning point importantissimo per la trama ed è destinato, ragionando a posteriori, a far sentire i propri strascichi fino alla sua conclusione. All’inizio di “Faith” ritroviamo dunque Sean, separato da Daniel dalla furia distruttiva dei poteri di quest’ultimo, costretto a intraprendere una “deviazione” dall’iniziale proposito di scappare verso sud e raggiungere Puerto Lobos (luogo di nascita del padre dei due ragazzi) per mettersi sulle tracce del fratellino disperso. Si tratta perlopiù di un episodio solitario e on the road per la prima metà, che tarda, a onor del vero, ad avere qualche sussulto e viene anzi trattata in modo fin troppo sbrigativo, come se gli sceneggiatori di Dontnod avessero fretta di mostrarci quel che invece ci si palesa davanti agli occhi in seguito.
E soprattutto, dove vogliamo arrivare?
Per la prima delle circa due ore e mezza di gioco abbiamo alzato più di un sopracciglio: le fasi iniziali, che mostrano la degenza ospedaliera di Sean, vengono trattate (come anche quel che viene subito dopo) con una superficialità piuttosto disarmante. I pochi personaggi secondari con cui il ragazzo si trova a interagire e a legare, potenzialmente anche ben caratterizzati, vengono per esempio liquidati fin troppo in fretta, anche per esigenze del racconto, costretto, in maniera affine a un road movie, a spostarsi subito da tutt’altra parte. Finn e Cassidy, i due ragazzi “grunge” diventati col tempo amici di Sean e Daniel, vengono trattati alla stregua di perfetti sconosciuti, fra un dialogo (opzionale!) e una lettera sul comodino lasciata chissà quando. Per il resto, tanti saluti. Il racconto corre via veloce, troppo veloce, e questo è il principale e più grave problema di cui questo quarto episodio – almeno per la gran parte – soffre, problema all’interno del quale se ne incastona un altro. Durante la “fuga” alla ricerca del fratello, infatti, Sean si imbatte anche nel classico siparietto a sfondo etnico-razziale che, da ragazzo di origini messicane, lo vede protagonista, scena con cui Dontnod denuncia ancora una volta la sua ferma opposizione alla presidenza di Donald Trump, stavolta accantonando i guanti di velluto indossati in precedenza. Peccato che, a differenza dei riferimenti intravisti nei primi due episodi (tutto sommato riusciti), in questo caso si tratti di un momento davvero posticcio e di cui abbiamo faticato a capire il senso, specie considerato il momento della storia in cui va ad inserirsi. Soprattutto se teniamo conto del fatto che, per il modo in cui l’episodio si evolve nella seconda metà, difficilmente parliamo di una scena che avrà delle conseguenze reali e credibili.
Due lupacchiotti (poco) determinati
Nei (circa) novanta minuti finali la storia muta (ancora) in maniera radicale ed è tutta incentrata attorno all’effettivo “recupero” di Daniel: in riferimento a questa sezione dell’avventura eviteremo qualsiasi spoiler o descrizione, anche velata, degli avvenimenti, ma sappiate che, nonostante tutti gli interrogativi ancora aperti, accade qualcosa che ci fa riaccendere un lumicino di speranza per il finale della serie. Uno dei primi intrecci narrativi, che coinvolge molto da vicino i due fratelli a livello familiare, comincia a sbrogliarsi; anche in quel caso, a dirla tutta, la sensazione è che siano molte di più le parole non dette che quelle effettivamente proferite, nell’ambito di una narrazione convulsa che fatica a tenere insieme tutti i pezzi. Il che, se ci pensate, è paradossale se consideriamo che si tratta di un episodio improntato quasi solo su un unico tema, quello della riunificazione dei due protagonisti. Se non altro, però, si arriva a trattare – prima dal punto di vista di Sean e poi da quello di Daniel – uno degli elementi centrali della storia di questa seconda stagione: l’abbandono. Il tutto, però, si conclude proprio sul più bello, peraltro in maniera fin troppo sbrigativa, lasciandoci con non poche preoccupazioni: tra poco più di tre mesi, Dontnod non avrà più molto tempo per sviluppare certe tematiche in tutti i loro risvolti. Deludono anche le tematiche religiose affrontate sul finale, che danno anche il nome al quinto episodio e che, semplicemente, non funzionano, trattate come sono a metà tra lo stereotipato e il sensazionalistico e legate a personaggi decisamente poco credibili.
Concluse le disquisizioni narrative, su cui siamo rimasti piuttosto amareggiati – specie per alcune pieghe del racconto di Faith e per il modo in cui viene trattato in rapporto a quello di Wastelands – rimane in realtà ben poco da dire. Anche a livello ludico, complice la totale assenza di Daniel, la quarta parte della seconda stagione rinnega quasi completamente l’identità costruita ed espressa fino a questo momento, tra le discussioni tra fratelli che cadenzavano i precedenti episodi e i piccoli insegnamenti contestuali che qui e là ne punteggiavano le fasi di esplorazione. Ci si ritrova, nel complesso, a vivere un’avventura più lineare, quasi del tutto priva di zone esplorabili – se si esclude una grande area sul finale – e orientata interamente al frenetico sviluppo della narrativa, che, giunti a questo punto, finisce per lasciare per strada troppi pezzi, dimenticandone anche qualcuno parecchio importante. A questo punto, cominciamo davvero a temere che tutto quanto possa finire in un mezzo fiasco, salvato soltanto dal nome che porta. Ma non per chi ha apprezzato in maniera viscerale i titoli del 2015 e del 2017, che, loro malgrado, erano intitolati proprio come la maldestra – finora – storia di Sean e Daniel Diaz.
Faith, il quarto episodio di Life is Strange 2, non è riuscito a convincerci. Soprattutto perché fa un passo in una direzione clamorosamente sbagliata, mettendo a repentaglio il prosieguo (e finale) della serie. La narrativa imbastita da Koch, Barbet e soci perde all’improvviso di vista tutto quanto di buono fatto in precedenza, spingendosi verso territori inesplorati e facendolo in maniera fin troppo frettolosa, senza riuscire a ricomporre tutti i pezzi (a Wolves spetterà un compito titanico in tal senso). Una delusione arginata solamente dal prepotente ritorno di un legame “intimo” che coinvolge i due giovani protagonisti, l’unica novità che, anche in prospettiva, potrebbe aggiungere un tassello davvero sensato alla backstory generale, riportandola verso temi legati all’introspezione psicologica e personale. Per il resto, però, al momento fatichiamo a capire dove Life is Strange 2 voglia andare a parare, non tanto nella trama vera e propria – che dovrebbe tornare al suo filone originario, con risvolti ancora inesplorati – quanto nella coerenza narrativa e nella capacità degli sceneggiatori di tirare tutti i fili nel modo giusto. Da questo punto di vista, credeteci, è facilissimo – specie se avete faticato a legare emotivamente con la serie – che l’ultimo fra i quattro finali temporanei vi lasci perplessi, se non addirittura delusi.