Jojo Rabbit | Hitler si presta davvero bene alla parodia. Charlie Chaplin lo portò sulla propria pelle con Il Grande Dittatore; poi fu la volta di Mel Brooks con il musical Per favore, non toccate le vecchiette, sino ad arrivare a qualche anno fa con Lui è tornato di David Wnendt. Stavolta l’onere è toccato al regista Taika Waititi, conosciuto per lo più per il suo excursus disneyano con Thor: Ragnarok e il primo episodio della serie The Mandalorian, portando sul grande schermo la libera interpretazione cinematografica del romanzo Il cielo in gabbia di Christine Leunens: Jojo Rabbit. Il filmaker neozelandese s’imbarca nel difficile compito di raccontare uno dei periodi più bui del novecento europeo in una visione nuova: dagli occhi di un bambino. Come è andata? Scopriamolo assieme.

L’educazione ai tempi del nazionalsocialismo
Germania, Berlino. La guerra è agli sgoccioli e la nazione vive nella stanca routine al tramonto dell’era nazionalsocialista, spingendo avanti retoriche oramai così scariche che nessuno – o pochi – riescono a credere ancora in quell’ideale. Jojo Betzler (Roman Griffin Davis) è un bambino che non ha conosciuto nulla al di fuori della propaganda nazista e il suo amico immaginario, il suo grillo parlante, è niente di meno che Adolf Hitler (interpretato dal regista stesso, inceronato per l’occasione, Taika Waititi). Dimentichiamoci però le urla nervose e gli scatti isterici: questo Führer è diverso dal consueto che siamo abituati a vedere, proiezione piuttosto della coscienza di una mente ingenua, risultando goffo, infantile, spettro sardonico dell’indottrinamento che Jojo ha subito nei teneri anni delle sua infanzia e che adesso, nella difficile età della formazione, si manifesta, a ridosso dell’ora più buia del conflitto: il Terzo Reich è un sogno sfumato, il morale è a pezzi e le truppe degli Alleati sono alle porte della capitale tedesca, abbandonata a se stessa. Il volto di Hitler, quello vero, è solo un manifesto sui muri.
Taika Waititi dipinge un corollario di archetipi pescati dal classico racconto di formazione, dal capitano – mentore – disilluso Klezendorf (Sam Rockwell), alla subdola educatrice Faulein Rahm (Rebel Wilson), passando per l’amico confidente, impacciato ma risoluto Yorki (Archie Yates). Il quadretto messo in scena è essenziale e i personaggi rispondono alle esigenze sceniche in un meccanismo collaudato senza particolari sorprese. La pellicola però evade dal cliché grazie a due riuscitissime figure femminili, Rosie Betzler (Scarlett Johansson), madre di Jojo, figura autoritaria e tenera, garantendo originalità sul fronte recitativo e narrativo, ed Elsa Korr (Thomasin McKenzie), una giovane ebrea che vive rifugiata nel soppalco di casa Betzler.
Peccato che, a fronte di uno schema narrativo così certo, la qualità dei dialoghi, anche nei momenti di maggiore pathos, non riesce a sollevarsi dal banale rimanendo inceppata nella facile esecuzione di voler esprimere esattamente ciò che si vuole intendere: ne finisce che oltre l’apparenza non c’è una chiave di lettura o un rimando ideologico più grande. È tutto così com’è.
Dove la pellicola riesce meglio è però nel rapporto tra Jojo e la giovane ebrea Elsa. Ne scaturisce un triangolo tra i due ragazzi e l’Adolf Hitler immaginario del bambino, in un andirivieni di incomprensioni, avvicinamenti e una disamina burlesca di quella lunga sfilza di luoghi comuni che la propaganda nazista alimentò ai danni del popolo semitico. Anche qui però la riflessione non è in grado di stimolare e la comicità paradossale di alcuni momenti – in particolar modo quando nel mirino della dissacrazione c’è l’ideologia del partito di estrema destra – il sorriso risultante è inserito come collante e non come naturale soluzione della narrazione.
Una storia a tinte stelle e strisce
Tecnicamente l’autore confeziona un film che vuole essere al passo con le recenti produzioni, mescolando una miriade di influenze registiche, da inquadrature rigide e centrate alla Wes Anderson – per il quale il lungometraggio condivide più di una somiglianza nella volontà di raccontare una storia di formazione – sino a soluzioni più d’avanguardia che non snaturerebbero in una produzione Disney-Marvel (ma d’altronde 20th Century Fox, casa produttrice della pellicola, è stata acquisita dalla Casa di Topolino lo scorso anno, ed ecco che l’arcano si svela). Il risultato? Gli occhi sono appagati per via di nessuna sbavatura e di un lavoro formale ben realizzato, complice un Waititi che regala movimenti di camera rapidi e comunicativi. Ma una volta che lo spettacolo è finito ci si rende conto che non c’è alcun linguaggio cinematografico a sostenere quello che è un solo appagamento esteriore dei sensi. Sul fronte della regia e del montaggio, il filmaker mescola così tanto che il fiabesco alla Wes Anderson rimane appena accennato e non in grado di svilupparsi e nei momenti più tragici, Waititi sperimenta registri che non si amalgamano con il taglio generale dell’opera. L’esito è un ibrido: un bel Frankenstein, ma pur sempre un Frankenstein. Trovare una citazione a Psycho di Hitchcock e a La Casa di Sam Raimi in una scena può diventare un valore aggiunto, mostrando la competenza dell’artista nel conoscere le regole dell’horror, ma il manierismo è del tutto superficiale e gratuito nella resa complessiva.
Jojo Rabbit si colloca nel genere del film di formazione. E lo fa con l’azzeccato espediente di proiettare parte della coscienza di un ragazzo nei panni di Hitler. La prova attoriale di Taika Waititi nell’impersonare un ruolo delicato come quello del Führer, si trasforma nella vera punta di qualità dell’opera: è riuscito, con tutte le concessioni del caso, a mostrare un dittatore convincente, estremizzato nei comportamenti e nelle logiche ingenue di un bambino, contraddittorio, baluardo di una ideologia corrotta senza presupposti. Un gran fanfarone millantante che, in una emblematica scena, non sdegna di far un vezzo a Charlie Chaplin de Il Grande Dittatore. Peccato però che questa prospettiva ingenua della storia attraverso gli occhi del giovane Jojo non permea l’intera pellicola, e la meraviglia della visione illusa di un bimbo finisce per svelare la volontà di un regista che vuole motteggiare l’infanzia senza raggiungerla.
L’operazione di Jojo Rabbit è simile a quella de La Vita è Bella, ma finisce per essere svuotata di una reale drammaticità per le tinte troppo sciocche. L’aspetto più riuscito è quello dissacrante ma la satira si muove verso più direzioni rimanendo poi ancorata ad una dimensione demenziale – anche se con buoni esiti – veicolando un contenuto che non spinge alla riflessione oltre la normale comprensione della narrazione, fregiandosi inoltre di una allusiva e soggiaciuta propaganda politica non conforme ad un film che vorrebbe narrare di formazione. Qui, senza cadere nello spoiler – dato che la storia è in qualsiasi libro di testo – l’arrivo degli invasori statunitensi-russi è trattato con totale disparità, dipingendo i primi con fanfare e bandiera di vittoria e i secondi con crudeltà ai danni della popolazione berlinese.
La rappresentazione della guerra come lotta quotidiana di ogni persona è una delle chiavi di lettura del film ma farlo attraverso immagini pop e stereotipate nell’esempio banale di una cultura che ha conosciuto la guerra solo attraverso il videogame (per fortuna) finisce per sminuire il messaggio, giungendo poi a rappresentare dei caratteri grotteschi che non hanno a che vedere né con i veri orrori del conflitto né riescono a suggestionare nello spettatore una coscienza critica: ne rimane una fredda raffigurazione cristallizzata nel luogo comune.
Jojo Rabbit è un parto doloroso e difficile, figlio di una mescolanza di generi e di scelte registiche e narrative che vogliono andare verso più direzioni. Dalla sua Taika Waititi dimostra di saper confezionare un film con un ritmo che non annoia e con trovate umoristiche godibili. Siamo ben lontani dalle vere comicità dissacratorie del passato, alla Monty Python, ma forse, al giorno d’oggi, con un cinema capitanato dalla preponderanza blockbuster questo è il nuovo canone dello humor-satirico e dell’opera di formazione. Particolare merito ad alcune scene dove l’accompagnamento sonoro dei Beatles o di David Bowie caricano d’emozione il contenuto, ma in questo caso la mia riconoscenza va agli artisti musicali. Una grande occasione mancata. Oppure semplicemente una pellicola – che per motivi produttivi – doveva essere così com’è: osare tanto per non dire nulla.