Che i videogiochi non siano solo un mero prodotto è ormai un dato di fatto. Tale medium sta evolvendo ed è ora sempre più complesso e trasversale: lo dimostrano non solo gli studi dedicati, ma anche i discorsi che lo coinvolgono. Tra le varie applicazioni di studio, è importante dare risalto alla VG Therapy, meglio nota come strumento terapeutico applicato ai videogiochi, o dell’uso di queste opere in psicoterapia e istruzione; di cosa si tratta?
Il gioco della terapia o terapia del gioco?
A chi dobbiamo la nascita di questa terapia? Si chiama Francesco Bocci, ed è lo psicologo e psicoterapeuta che ha sviluppato e testato questo protocollo negli ultimi due anni, stabilendo così man mano l’utilizzo di uno strumento da integrare in un percorso più complesso. La terapia è un’attività assimilabile al “gioco” e, come quest’ultimo consente ai bambini di esprimere inconsciamente aspetti del proprio mondo interno ed esterno, anche i videogiochi sembra possano garantire questo risultato, in virtù della loro natura e caratteristiche di “gioco” a tutti gli effetti, ma accessibile agli utenti (anche) in età superiore a quella infantile. Come dicevamo, i videogiochi sono diventati un mezzo di comunicazione sempre più complesso e diffuso tra i giovani, le cui immagini sembrano assimilare sempre più elementi tipici del mondo videoludico. Qui “entra in gioco” proprio la terapia, che consente agli utenti di iniziare un lavoro psicologico su se stessi e di sviluppare immediatamente una buona relazione con l’operatore coinvolto nella terapia. I bambini, si sa, amano parlare delle proprie avventure fantastiche, dei mondi di gioco che creano nella loro mente e, di conseguenza, raccontano anche dei titoli a coloro con cui si relazionano. Proprio grazie a questa condivisione, aumenta la motivazione nel mantenimento di tale attività terapeutica, arrivando anche più facilmente verso gli obiettivi concordati per merito anche delle proprietà stimolanti del medium.

Anche il videogioco consente ai bambini di esprimere il proprio mondo interno ed esterno
Iniziare la terapia: la relazione del sé con il gioco
Dunque è bene approfondire il discorso terapeutico, per capire in cosa consisti e come si sviluppi in concreto. Solitamente viene profilato un percorso definito in dieci tappe e svolto all’interno di una comunità o di un percorso psicoterapeutico già avviato, cominciando con incontri individuali o in piccoli gruppi, composti solitamente da tre protagonisti ben distinti: un fruitore, l’Altro (denominato caregiver in questo specifico frangente) e uno psicologo, oppure soltanto un giocatore e uno psicologo. Durante questa fase iniziale del colloquio, il paziente è pronto per il lavoro da svolgere e vengono identificati gli aspetti di se stesso su cui concentrarsi durante il gioco. Viene quindi riproposto un obiettivo specifico per quella sessione, in linea l’obiettivo concordato durante la fase di accoglienza e conoscenza, aiutando il paziente a riformularlo. Ogni sessione dura in media 30 minuti, individuale o condiviso e, a seconda del videogioco scelto e degli obiettivi da perseguire, la fase ludica può essere in single-player o in multi-player (insieme allo psicologo o al caregiver). A seconda della durata della sessione o di quanto tempo si è impiegato per la fase di briefing, la fase di gioco può variare da un minimo di 20 minuti a un massimo di 50, durante la quale lo psicologo deve osservare attentamente il comportamento verbale (e non) del paziente, e comprendere il suo stile di gioco osservando lo schermo.

Un aspetto importante è quello di osservare attentamente il comportamento verbale, e non, del paziente
Le funzioni del videogioco in fase terapeutica
Proprio il videogioco, soprattutto durante la fase play, può svolgere tre funzioni fondamentali. La prima si può assimilare al concetto di “zona sicura”: ossia un ambiente virtuale che mira a “proteggere” il soggetto, portandolo a concentrarsi su azioni e schemi cognitivi ripetitivi per raggiungere un obiettivo richiesto dal gioco. Una seconda funzione vede il videogioco come “contenitore di emozioni“, per utilizzare l’identificazione proiettiva e sviluppare il rapporto tra avatar virtuale e identità reale, riconoscendo il proprio “stile di vita” presente nel modo di vivere un gioco, creando connessioni tra vita reale e virtuale. Avviene un processo di riconoscimento e di identificazione delle “parti di se stessi” che prendono parte alla sessione. Non meno importante è il videogioco come “sandbox”, per costruire significati emotivi condivisi: si passa dal presente simbolico ludivo, alla co-costruzione di significati creativi (di design). Le associazioni libere vengono utilizzate non a scopo interpretativo, ma come strumento e stimolo creativo. Il processo decisionale viene incoraggiato, invitando il soggetto a prendere una parte attiva e creativa nella narrativa presente nell’opera e ad attribuirle un nuovo significato emotivo. Lo storytelling e la “costruzione di storie” vengono a realizzarsi a metà strada tra il reale e il virtuale, a partire dal contenuto narrativo riprodotto.

A seconda delle caratteristiche “stressate”, anche il videogiocatore si comporta in maniera differente.
Fine dei giochi, inizia la consapevolezza
Al termine ci sarà un momento di debriefing in cui verrà chiesto al giocatore di “depositare, incarnare e radicare”, descrivendo o disegnando le emozioni ed i pensieri provati durante l’esperienza che ha avuto luogo in precedenza, in diversi modalità, tra cui la scrittura espressiva o il disegno libero. I significati emersi durante la sessione di gioco devono essere presi in considerazione per dare un senso al lavoro svolto, in modo da sottolineare che la sessione appena avvenuta è un vero e proprio lavoro terapeutico. Tutto ciò deve essere appreso e consolidato; a questo proposito, può essere utile utilizzare diversi strumenti per concretizzare e aiutare il paziente ad assimilare concetti astratti, come ricorrere a elementi artistici, recitazione psicodrammatica o attività corporea. Durante il primo incontro verranno poi identificate le aree e le parti emozionali su cui continuare a sviluppare le sessioni successive, attraverso un’attenta e specifica selezione di alcuni videogiochi.

Da quanto abbiamo appena letto, la prassi da seguire di per sé non è nulla di particolarmente complesso o “traumatico”, anzi, ma le analisi che ne conseguono possono dare risultati decisamente importanti e fondamentali, facendo assurgere il videogioco a un livello decisamente diverso da quello raccontato finora nelle cronache di vita quotidiana. Non si prende più di mira il fruitore di Fortnite che vi trascorre ore ininterrotte, oppure la scurrilità e lo stigma diseducativo di un Grand Theft Auto, solo per citarne alcuni; come è proprio di ogni mezzo, anche per il videogioco vale la regola secondo cui il medium non ha proprietà “buone o cattive” di per sé. Tutto sta nel raziocinio, nella capacità e bontà di coloro che ne fanno uso, le cui conseguenze illumineranno in maniera diversa le opere; per questa volta, fortunatamente, riesce a brillare di luce propria.