Arrivati al nono, e penultimo, episodio, The Last Dance inizia a tirare a sé le fila del discorso, avviandosi verso la conclusione di questo grande e avventuroso percorso. Dopo aver conosciuto i Chicago Bulls e Michael Jordan, averli seguiti nella loro scalata al successo, aver gioito con loro nel vederli vincere quattro titoli mondiali in pochi anni, e aver sofferto nei loro momenti più bui, è ora giunto il momento di scoprire come si conclusero le ultime due grandi stagioni di questa dinastia, rispettivamente quella del ’96/’97 e del ’97/’98.
Annunciata sin dal primo episodio, la stagione rinominata The Last Dance avrebbe segnato la fine di un’epoca. Con il coach Phil Jackson che non avrebbe ripreso il suo ruolo l’anno seguente, e Jordan che per questo minaccia di ritirarsi, la sensazione che il periodo di massimo splendore per i Bulls stesse per concludersi era sempre più tangibile. La docuserie si accosta con religioso rispetto a quel momento, decidendo di prendere alla larga il discorso per poter mostrare la lunga e faticosa strada che ha portato fin lì, fino a quell’ultima, agognata partita.
L’ultima finale
Dopo aver coperto, arrivati all’ottavo episodio, un arco temporale piuttosto ampio, che va dal 1984, anno in cui Jordan entra nell’NBA, sino al 1996, quando i Bulls vincono il loro quarto titolo, con la nona puntata non resta che raccontare parte di quanto rimane prima di quel fatidico 1998. L’episodio si concentra infatti sulle finali del ’97 e del ’98, mostrandole in modo così avvincente che lo spettatore può facilmente dimenticare di star guardando un documentario piuttosto che la reale partita. I preziosi filmati di repertorio permettono di ripercorrere ogni grande azione, ogni passaggio, ogni tiro andato in rete o finitone fuori.
Come già visto accadere durante la serie, tali partite vengono raccontate con un fare estremamente narrativo e cinematografico, potendovi ritrovare al loro interno le varie tappe che ogni grande eroe deve necessariamente percorrere per raggiungere i propri obiettivi. E di ostacoli sul loro percorso i Bulls ne hanno incontrati diversi, fino ad arrivare a doversi scontrare con la squadra Utah Jazz, che in più di un momento li ha posti in seria difficoltà.
All’interno di questo conclusivo racconto, una personalità spicca in particolare. Si tratta del giocatore Steve Kerr, celebre membro dei Bulls e oggi affermato coach. Kerr si è rivelato l’uomo decisivo per tali finali, e attraverso una sua più approfondita conoscenza, a cui la puntata si dedica per buona parte, lo spettatore può facilmente ritrovarsi ad empatizzare per questo giovane ragazzo che, trovandosi a dover emergere in un team di fenomeni come Jordan, Pippen e Rodman, riesce infine a dimostrare il proprio valore portando la squadra alla vittoria.
La dinastia dei Chicago Bulls
Con il nono episodio si giunge così ad assistere alla sofferta vittoria dei Bulls nel 1997, e, in maniera ancor più significativa, a quella del 1998. Sei titoli mondiali conquistati nell’arco di sei anni, per un risultato che la squadra di Chicago non avrebbe mai più ottenuto. È la fine di un viaggio, di un’avventura, ma il tutto avviene quando manca ancora un episodio alla conclusione vera e propria della serie.
Questa scelta, che in parte può sembrare discutibile, consente tuttavia di generare un grande interrogativo nello spettatore. Cosa succederà ora? Se il 1998 è davvero stato l’ultimo anno per Jackson e Jordan, cosa verrà raccontato nell’ultimo episodio? Si può immaginare che sarà dedicato proprio a quelle battute finali che hanno portato la dinastia dei Bulls a interrompersi, uscendone però da campioni assoluti.
Con il nono episodio si pone dunque un punto alla storia fin qui raccontata, in grado fino all’ultimo di emozionare e far appassionare anche chi prima di seguire la serie era totalmente estraneo al mondo del basket. Grazie alle interviste e ai filmati che permettono di entrare così nel profondo nell’intimità di Jordan e della sua squadra, risulta difficile non sentirsi legati a loro. Ecco perché l’ultima puntata potrebbe risultare un doloroso, ma grato, saluto.