Licorice Pizza Recensione: il nuovo cult di Paul Thomas Anderson

Sono tre le categorie in cui gareggerà alla prossima  notte degli Oscar, e d’altronde ogni lavoro partorito dalla mente e dalla penna di Paul Thomas Anderson è pronto a lasciare il segno nell’immaginario cinefilo, che ormai attende ogni sua nuova opera in maniera spasmodica e totalizzante. E per l’appunto, pur trovandoci di fronte ad un Anderson forse – ma un forse sottolineato e risottolineato – minore, Licorice Pizza resta sempre e comunque un qualcosa di prezioso nel panorama contemporaneo, capace anche nelle sue ruvide imperfezioni di scavare con dolcezza e profondità nel cuore dei personaggi e, con essi, del pubblico.

L’apoteosi dei sentimenti, come forse non si vedeva da quell’Ubriaco di amore (2002) con Adam Sandler – se si esclude il legame algido ma ad ogni modo intenso de Il filo nascosto (2017) – è qui intrapresa dalla giovane coppia di protagonisti, entrambi esordienti dietro la macchina da presa pur provenendo da diversi background. Uno è figlio d’arte e di cotanto, compianto, padre: stiamo parlando di Cooper Hoffman, erede da poco maggiorenne del grande Philip Seymour, al quale assomiglia come una goccia d’acqua. Lei è invece Alana Haim, leader e vocalist del gruppo musicale Haim, nel quale si esibisce insieme alle sue due sorelle.

Licorice Pizza: a spasso nel tempo

Nonostante la differenza di età che intercorre tra i due, ben dodici anni, il legame che si sviluppa tra i relativi alter-ego possiede una magia innata e crepuscolare, amaramente nostalgica non solo verso il determinato periodo storico e sociale in cui è ambientato il racconto ma anche verso un’idea di cinema grezzo e genuino che oggi è sempre più difficile vedere. Grezzo naturalmente in un senso più che positivo, capace di scandagliare con graffianti e ruspanti unghiate in quell’ottica di un’America assai lontano dal classico “american dream” e incanalata nelle teorie filmiche della New Hollywood, ma dove è comunque possibile sognare ad occhi aperti e innamorarsi della vita.

La storia ha luogo agli inizi degli anni Settanta nella San Fernando Valley, dove il giovane Gary Valentine è uno studente del liceo. Durante i preparativi per la foto di fine anno ha modo di conoscere Alana, di diversi anni più grande di lui, che lavora come assistente di un fotografo. Gary le chiede di uscire e questo sarà soltanto l’inizio di un’incredibile amicizia, destinata forse a trasformarsi in qualcosa di più. Con il passare del tempo l’improbabile “coppia che scoppia” affronta situazioni di ogni genere e il loro rapporto si trova a subire importanti scossoni fino a cementificarsi sempre di più. Ma quello che per Gary è un amore puro e sincero troverà idonea risposta da parte della ragazza?

All you need is love

Si ha come l’impressione che Licorice Pizza sia volutamente sbavato, e che alcune delle soluzioni narrative siano frutto di un ragionato artificio indirizzato a destinare la vicenda sul dolce epilogo. L’incertezza che aleggia nell’ipotetica love-story in divenire è la stessa che Anderson riesce a far trasparire dalla messa in scena, proprio per questo ancora più preziosa e incisiva di quanto possa inizialmente apparire e capace di carburare maggiormente proprio a fine visione, quando infine tutti i nodi vengono al pettine e l’obiettivo principe infine svelato.

Si respira un’atmosfera costantemente sospesa, dove il senso di attesa diventa a tratti frenetico e spasmodico nell’evoluzione di questo istintivo coming-of-age nel quale Gary si immerge (in)consapevole dei propri rischi e delle proprie emozioni, alla ricerca di quel desiderio idealizzato che risponde alla ragazza dei suoi sogni, nel solco della regola dell’amico che ha funestato le adolescenze di molti teenager, antecedenti o posteriori inclusi e sia sul grande schermo che nella vita reale. Tutto sembra cristallizzato nell’alone esclusivo che solo i seventies hanno rappresentato, non solo per chi li ha vissuti in prima persona ma anche per tutte le influenze che questi hanno lasciato alle future generazioni.

Un lascito che si ripercuote per l’appunto ancora oggi e del quale Licorice Pizza è tra i più, se non il più, fulgidi esempi (re)incarnati dal nuovo millennio, in una progressione di toni e sussulti che si trascina non solo nella sinuosa colonna sonora “a tema” ma anche nella duttilità proteiforme dei personaggi secondari, ognuno pronto a caricarsi un ideale archetipico. Dal Sean Penn nei panni di un attore vanesio e menefreghista obnubilato dall’idea di se stesso allo sciupafemmine fuori controllo di Bradley Cooper fino all’istrionismo di Tom Waits e al più breve cameo di John C. Reilly, ogni figura di contorno  contestualizza in maniera ancora più marcata il mood e lo sguardo d’insieme.

A caccia di emozioni

Niente è lasciato al caso e se a tratti si può avvertire una certa ripetitività, con il rischio di saltuari tempi morti, la verve si ritrova prontamente in scene più o meno madri, dalla spiata attraverso una finestra – il cui contenuto è lasciato fuori campo ma ovviamente dichiarato – alla retromarcia a secco di benzina, fino a quella doppia corsa finale nella quale è racchiuso tutto l’amore non solo per quanto raccontato ma anche per l’idea stessa di Settima Arte. Anderson ha come al solito cura, o meglio dire cuore, per le immagini e il suo modo di immortalare sensazioni si imprime in maniera quasi morbosa e appiccicosa, non lasciando scampo allo spettatore sempre più rapito.

Proprio in questa innata ispirazione della messa in scena si trovano i motivi per perdonare qualche “vizio di forma” – come si intitolava paradossalmente il suo cult del 2014 – che rischia a tratti di disorientare e apparire come frutto di una sfrontatezza ormai consapevole di poter osare oltre i limiti del proprio stile. E che potrebbe per l’appunto mandare fuori sintonia chi si era approcciato alle sue pellicole più, iconoclasticamente, classiche.

Partendo da una sceneggiatura primordiale ed elementare PTA costruisce un nuovo affresco ricco di spunti e situazioni, dando vita ad un mondo pulsante e credibile con il quale l’immedesimazione è a portata di mano, anche per via delle genuine performance dei suoi protagonisti, la cui inesperienza viene sublimata in un feeling spontaneo e accattivante. L’epica di un’epoca che rivive all’apice, dove tutto è libero e amabilmente fuori controllo salvo riconsegnarsi, nell’idilliaca  conclusione, a quell’epilogo che tutti – sotto sotto – auspicavano fin dall’inizio.

Un’amicizia che è anche amore ma che è soprattutto appartenenza: in Licorice Pizza il cinema di Paul Thomas Anderson si trasforma, diventando materia malleabile e spasmodica, per adattarsi a stilemi e atmosfere tipiche degli anni Settanta, periodo storico fondamentale non solo dal punto di vista artistico ma anche e soprattutto emotivo e sociale, come idealizza appieno la dolce amara e nostalgica love-story che segna questo racconto delle prime volte, siano esse gioie o dolori. Per un’opera che come al solito da tal regista non lascia indifferenti e che, anche nelle sue ricercate sbavature, sa sempre e come colpire il cuore e lo sguardo.

Voto: 8