In Coda – I segni del cuore, in qualità di Child of Deaf Adults, ovvero unica figlia udente in una famiglia di sordi, Ruby Rossi (l’ottima Emilia Jones già vista in Brimstone e La casa delle bambole) è da sempre voce e ponte di contatto tra i suoi cari e il mondo esterno. Il suo impegno è infatti necessario e determinante anche al fine di portare avanti l’attività di pesca di famiglia, gestita in primis da padre (un bravissimo Troy Kotsur) e fratello (Daniel Durant). Senza di lei, senza i suoi “segni”, e senza la sua costante presenza a fare da interprete, il mondo dei suoi cari sarebbe infatti sopraffatto dal silenzio, dalla difficoltà di relazionarsi con il rutilante e spesso impetuoso mondo degli “udenti”. Ma Ruby è anche un’adolescente come tante, che a scuola si sente emarginata e irrisa per quella sua famiglia un po’ “stramba” e per il costante olezzo di pesce che si trascina dietro dopo le albe trascorse a bordo di un vecchio peschereccio e a trattare con i venditori. Eppure, Ruby è un’adolescente con tutte le più classiche pulsioni dell’età, come la voglia di (in)seguire i primi amori e le prime passioni. Così, spinta anche dalla cotta per il coetaneo Miles, s’iscriverà al coro scolastico diretto da Bernardo “Mr. V” Villalobos. Con un po’ d’impegno e perseveranza, l’ispirato insegnante le farà scoprire l’amore e il talento per il canto, le indicherà una possibile strada (difficile ma non impossibile) verso il suo futuro, ma poi starà a Ruby scegliere se restare fedele alle responsabilità legate alla sua famiglia o provare a inseguire la voce (rivelatasi a sorpresa incantevole) dei suoi sogni.
Coda – I segni del cuore: Amore e passione
Remake dell’amatissimo e premiatissimo film francese La famiglia Bélier, CODA (che all’edizione degli Oscar 2022 si è aggiudicato ben tre premi: Miglior film, Miglior attore non protagonista a Troy Kotsur e Migliore sceneggiatura non originale a Sian Heder) è un classico coming of age dove il tema della sordità viene sfruttato per evidenziare prima limiti e poi punti di forza di una mancanza di udito che si traduce (per forza di cose) nello sviluppo di altre e (spesso) più brillanti abilità. Non solo. La forza del film di Sian Heder, tradotta qui dal film originale assieme a gran parte delle altre caratteristiche vincenti dell’opera primigenia, è quell’amore spassionato che permea un po’ tutto e tutti, convertito – nella parabola narrativa – a un buonismo che non appare respingente perché ben radicato nei propri valori di riferimento. A partire dal legame familiare che sembra essere unico e indissolubile, passando per la trasparenza e la devozione con cui ogni membro del nucleo tenta di svolgere al meglio il proprio ruolo tra (e fuori) le mura di casa, e arrivando al personaggio protagonista della dolce ma combattiva Ruby, divisa tra l’amore per i suoi affetti e la voglia sempre più incalzante di provare a vivere la sua vita, ogni cosa qui sembra essere allietata dai buoni sentimenti e da un’amabilità trasversale. E in effetti sono proprio la delicatezza, l’amore e la passione che permeano il film a elevare questa storia di crescita e formazione per certi versi semplice e banale, a mutarla in una sorta di favola dove alla mancanza di voce si va a sostituire una voce bellissima, capace di unire punti di vista e punti di “fuga” diversi e talvolta opposti, di far luce su un percorso di vita che fino a quel momento pareva immerso nell’ombra.
Verso l’età adulta
La regista statunitense Sian Heder (nota per il Tallulah uscito in sala nel 2016), che cura sceneggiatura e regia di CODA, sceglie consapevolmente di riproporre il lato più emotivo e toccante di questa storia a un tempo ordinaria e straordinaria. Preferendo (rispetto all’originale francese) anche un cast di attori realmente sordomuti, Heder cerca e coglie la frustrazione di chi non può esprimersi appieno ed è costretto a far sempre riferimento ad altri pur di far valere la propria “voce”. Ma, d’altro canto, l’occhio femminile di Heder cerca e coglie anche la frustrazione e il dolore di chi si sente responsabile per la propria famiglia, di chi si sente in dovere di restare anche quando il proprio cuore dice “a gran voce” di andare. Mettendo a confronto questi due “dolori” CODA è in grado di sviscerare la dimensione affettiva del luogo famiglia nella sua interezza – e pienezza. Portare a galla qualche piccolo contrasto per poi far passare, potenti, i valori della comprensione, dell’accettazione, della tolleranza e dell’altruismo senza mezze misure. Opera forgiata a mo’ di fiaba, in effetti c’è poco spazio in CODA per la negatività, senza contare che l’elemento canoro interviene poi ulteriormente ad armonizzare l’economia del film. Un’opera che in primis e in fondo premia la maturità, e il senso di responsabilità qui inteso come “fa’ la cosa giusta”, che segue passo passo il coming of age della intensa protagonista Emilia Jones accompagnandola verso un’età adulta fatta di scelte che operano nel senso dell’inclusione, e che non devono necessariamente transitare per un qualche trauma, dramma o una qualche rottura di sorta. Si tratta di una catarsi spontanea che avviene per presa (e non perdita) di consapevolezza.
Anche se non tutto vince nel confronto diretto con l’originale di riferimento (La famiglia Bèlier del 2014) e se il Premio Oscar al Miglior Film poteva forse preferirgli altri validi candidati, CODA della regista statunitense Sian Heder riesce a riproporre in chiave americana il sentimento vincente alla base della sua storia, improntata su valori granitici e una sventagliata di buoni sentimenti. La scelta di un cast molto ben assortito e la ricerca di un’armonia che abbraccia insieme elementi visivi e sonori riescono a trasformare CODA in un’opera adatta a tutti, di facile lettura ma di apprezzabile impatto emotivo. Un coming of age classico ma ben argomentato, che sfrutta la sua precisa contestualizzazione sociale per elevarsi e rendersi molto meno ordinario del previsto.