Il rimpallo tra cinema e videogiochi si fa sempre più serrato e, nonostante i numerosi passi falsi e scivoloni visti anche di recente, possiamo senza dubbio dire che di produzioni ben pensate e ben realizzate in questo frangente ne sono uscite e ne stanno uscendo: dopo il miracoloso Arcane e in attesa del promettente film animato su Super Mario targato Illumination ecco l’attesissimo The Last of Us, serial tratto dal celebre videogioco nato su PlayStation dalla maestria di Naughty Dog e dall’estro narrativo del suo demiurgo, Neil Druckmann.
La serie arriverà su HBO Max negli Stati Uniti, mentre nel nostro Paese sarà un’esclusiva di peso di Sky e NOW, disponibile in contemporanea con l’originale, a partire dal 16 gennaio.
Abbiamo avuto l’opportunità di visionare il serial in anteprima, e pur partendo da buone aspettative, quel che che abbiamo scoperto ci ha sorpreso.
Ecco dunque la nostra recensione in anteprima, che sarà priva di spoiler: teniamo a precisare, ad ogni modo, che gli screener visionati erano ancora una versione non definitiva dell’opera, con montaggio, fotografia, effetti visivi e missaggio sonoro ancora work in progress.
The Last of Us: la rinascita del genere postapocalittico?
Possiamo dire che, in un certo qual modo, The Last of Us nasce da una costola di Uncharted: forti dell’esperienza accumulata sull’adrenalinico action game, Druckmann e il suo team hanno imbastito un titolo che, insieme al suo successore (Part II) ha appassionato e fatto discutere la quasi totalità degli appassionati di videogiochi, in particolare per i contenuti della storia e i suoi personaggi, tutt’altro che macchiette. L’impalcatura è quella del survival game in un mondo post-apocalisse “zombie”, ponendosi a metà strada tra l’ormai celebre (o famigerato?) The Walking Dead ideato da Robert Kirkman e il crepuscolare The Road di John Hillcoat, tratto dal romanzo di Cormac McCarthy, con un pizzico de Io sono leggenda.
Il mondo, per come lo conosciamo, smette di esistere un 26 settembre, con il collasso della civiltà umana in seguito ad una sorta di “apocalisse zombie” da film: a differenza di tanti popolari film fantahorror, però, non è un virus o una mutazione genetica la causa, quanto un’infezione fungina da parte di un organismo coriaceo e apparentemente inarrestabile, il cordyceps, che trova il modo di instaurare un rapporto parassitario col corpo umano, insidiandosi nel cervello e rendendo gli esseri umani infetti mere marionette dell’evoluzione del contagio.
I sopravvissuti cominciano a prendere contromisure, riorganizzandosi in comunità più o meno circoscritte: le grandi città finiscono sotto il gioco militare parastale della FEDRA, organizzazione istituzionale che tiene il tutto sotto controllo con il pugno di ferro del regime militare. Le regioni isolate, tuttavia, sono tornate a essere terra di nessuno, con bande armate di spietati predoni in agguato o comuni gestite in maniera popolare o attorno a figure più o meno carismatiche e autoritarie.
In questo mondo al collasso, in cui l’umanità va avanti senza una ragione apparente che non sia l’istinto di autoconservazione e l’amore per i propri cari, conosciamo i protagonisti della nostra storia, Allie e Joel.
La differenza tra “merce” e “famiglia”
La serie si apre proprio con un monito relativo alla forza praticamente inarrestabile della Natura, per la quale siamo solo organismi come tutti gli altri del creato, nonostante l’arroganza di pensare di dominare il pianeta.
Una natura che, dopo millenni di predominio umano, lascia scorrere la bilancia dell’esistenza ora in favore di un’altra forma di vita: se l’umanità sarà in grado di rialzarsi o meno, è tutto da vedere… anche se potrebbe essere arrivato il capolinea per la Storia.
Joel è uno dei sopravvissuti dell’Outbreak: fondamentalmente di buon cuore, è un uomo capace e risoluto, un ultracinquantenne ormai inasprito come tutti dal dolore, dalle privazioni e dalle difficoltà di vent’anni di lotta per la sopravvivenza, in cui ha perso il suo affetto più grande (la figlia), e si è lasciato andare alla legge del più forte, macchiandosi di azioni spregevoli pur di riuscire a vedere un’altra alba di un altro giorno senza speranza.
Ellie, invece, è una ragazzina nata qualche anno dopo l’apocalisse, cresciuta in un campo orfani della FEDRA: per un qualche motivo è l’unico caso di persona immune all’infezione fungina, e per questo il gruppo di terroristi rivoluzionari denominati come Fireflies vuole far studiare il suo sangue a un’equipe medica, forse in grado di trovare una cura grazie all’apporto della giovane, che si dimostra sprezzante, violenta ma anche incline al gioco e allo scherzo, con le persone giuste.
Joel, divenuto un contrabbandiere perseguitato dal suo passato, decide di accettare la rischiosissima missione di scortare la teenager presso un avamposto ribelle piuttosto distante, instaurando nel corso della – lunga e ancor più difficoltosa del previsto – strada un singolare rapporto con la ragazza.
La serie è composta da nove episodi, diretti da diversi registi e sceneggiati, in tandem, da Craig Mazin (divenuto celebre e apprezzato per la pluripremiata serie Chernobyl, dopo un passato nelle commedie) e Neil Druckmann, ideatore e game designer del gioco originale.
A differenza di un ipotetico (e più volte paventato, ma per fortuna senza risoluzione) lungometraggio cinematografico, una serie dà modo di prendersi i propri tempi, per non dover tagliare dettagli importanti e approfondire, anzi, alcuni aspetti potenzialmente molto interessanti ma che in un videogioco avrebbero spezzato troppo il ritmo. Pur prendendosi i propri tempi e spazi, tuttavia, il minutaggio non abusa della pazienza dello spettatore (sì, Stranger Things, stiamo parlando di te): un’unica puntata dura un’ora e un quarto, le altre sono tutte abbondantemente sotto i sessanta minuti. Il che rende le vicende ricche e al contempo asciutte, riportando quasi tutti i momenti, situazioni e location iconici del primo videogioco e aggiungendo alcune digressioni che arricchiscono il contesto narrativo, in maniera anche coraggiosa.
“L’unica cosa che so, è che il bambino è la mia garanzia. E se non è lui il Verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato.”
Si tratta, a tutti gli effetti, di una trasposizione ma anche di un vero e proprio adattamento, realizzato non solo col benestare dell’autore, ma anche tramite la penna dell’autore stesso, un po’ come fatto da Neil Gaiman per The Sandman. Ogni cambiamento è stato voluto e ricercato dall’autore originale, quindi lamentarsi di sceneggiatori che non hanno compreso l’opera originale o simili, lo diciamo fin da subito, non ha senso. Ci sono delle differenze, rispetto al gioco? Sì. Sono sostanziali? Sì e no. Nulla che peggiori o snaturi l’opera, questo è sicuro. Di certo, soluzioni che funzionano molto meglio in un racconto non interattivo. Avremo accesso ad alcuni retroscena molto interessanti, e in alcuni casi Druckmann ci mette davanti a scelte molto coraggiose, che potevamo aspettarci sicuramente dalla sua penna. Una puntata, in particolare, è al contempo tra le più belle ma farà infuriare molti fan intransigenti, che magari cercano una trasposizione 1:1 delle vicende ricca di azione, e invece troveranno… tutt’altro (ma non sveleremo di più, in questa sede).
Partite dal presupposto che, rispetto al videogioco, di scene d’azione ce ne saranno molto, molto meno: saranno tutti momenti topici ripresi dall’originale e, incredibilmente, non saranno blandi e meno avvincenti della versione interattiva – complice anche una regia sempre ben strutturata – ma The Last of Us non è Uncharted e il focus è sui personaggi, i loro detti e non detti, le situazioni al limite.
Potremmo scrivere migliaia di parole sull’opera di adattamento, ma tutto trova il suo senso filmico: traslare così come sono storie e dinamiche di un videogioco in un live action svilisce entrambi i media, mentre qui l’approccio è stato ragionato, con una certa dose di cuore. C’è meno azione? Sì, per motivi di budget ma anche per scelta narrativa: appare evidente come per Druckmann i combattimenti imperanti sono una necessità di un videogioco, ma la storia che vuole narrare, in tv, può scremarne gran parte, senza perdere forza d’impatto e tensione, sacrificando solo un po’ d’adrenalina, come è normale che sia non essendoci noi al controllo dei protagonisti. Garantendoci, tuttavia, una narrazione migliore e più misurata. Per il resto, c’è una grande attenzione al particolare, a dimostrazione che si vuole far contenti i fan (gli ambienti sono tutti curatissimi) ma che si vuole rendere il tutto, per quanto possibile, più verosimile, e quindi c’è una maggiore attenzione al mostrare aspetti del survival che riguardano necessità umane di nutrizione e toletta, piuttosto che la manutenzione dell’armamentario. Non vedrete, come avrebbe fatto qualunque altro regista, Joel che modifica armi da fuoco o crea molotov giusto per strizzare l’occhio ai fan, ma lo vedrete preoccuparsi delle sue scarpe rotte, tanto per fare un esempio.
Per il resto, lo diciamo senza mezzi termini, lamentarsi (magari a priori) delle scelte di casting e giudicare unicamente a partire dai tratti somatici degli attori (cosa che nulla ha a che fare con l’indole e i presupposti dei personaggi) è infantile e superficiale.
Alcune scelte di casting sono dei veri volto/voce, anche inaspettati (tra cui i due “camei illustri” di Troy Baker e Ashley Johnson) mentre al di là della fisiognomica Pedro Pascal e Bella Ramsey restituiscono delle interpretazioni convincenti e a loro modo perfette, incarnando l’essenza dei loro personaggi per come voleva il loro creatore, in maniera multisfaccettata, con una Allie in cui è evidente la ferocia (non tanto) sopita e al contempo l’infantilità latente e un Joel non semplicemente ingrugnato ma vessillo di vulnerabilità incrollabile in attesa di personalissima redenzione.
https://youtu.be/h9RokZaHazk
The Last of US in versione live action prende evidentemente il meglio delle opere citate in apertura: la trasposizione ha inevitabilmente un che di “walkingdeadiano” nell’accezione migliore del termine, ma senza perdersi , anzi, con una direzione tecnica, artistica e narrativa notevole. Druckmann e Mazin sanno cosa vogliono e anche come ottenerlo, a scapito magari di alcuni aspetti che alcuni potrebbero aspettarsi, come ad esempio una maggiore componente d’azione. Ma, ricordiamolo, si tratta di una scelta ben precisa, su cui volendo si potrà tornare in un’eventuale seconda stagione. La narrazione e i sentimenti dei personaggi, tuttavia, ne escono amplificati, senza aver paura di indugiare su alcuni aspetti che potrebbero risultare controversi (e di sicuro faranno discutere).
Ad ogni modo, TLOU risulta un prodotto fresco, adatto sia ai fan dell’originale (che ritroveranno quel che hanno amato e nuovi, inediti, spunti) che i neofiti di quest’universo narrativo.
Che piaccia o meno, pur con alcune spigolature da riequilibrare per il pubblico di massa che magari si aspetta qualcosa di più “easy”, TLOU rappresenta da oggi il nuovo punto di riferimento quando si parla di trasposizioni dirette da videogioco a film.