Decision to Leave Recensione: un thriller che in verità è un romantico

Il rapporto tra il regista coreano Park Chan-wook e il mercato italiano è un rapporto complesso: scomparso dalla distribuzione cinematografica in coda alla sua celebre “trilogia della vendetta”, l’autore viene occasionalmente riscoperto e amato dagli appassionati cinefili. A distanza di sette anni dal suo Mademoiselle, Park viene riaccolto nel Bel Paese dalla casa di distribuzione Lucky Red, la quale trasporta sui grandi schermi Decision to Leave, ultima fatica dell’autore presentata in concorso al 75º Festival di Cannes.

Storia introspettiva d’amore mascherata a thriller investigativo, la pellicola si dimostra un’ennesima perla del cinema sudcoreano, garantendo degli standard ragguardevoli che vengono parzialmente fiaccati solamente dalle alte aspettative che accompagnano ormai tutte le opere dell’autore.

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Decision to Leave vive a cavallo di due prospettive

Il detective Jang Hae-jun (Park Hae-il) è un indagatore modello, tanto incorruttibile quanto nobile. Non ha mai con sé una pistola, ma al poligono di tiro è brillante, è in forma smagliante e possiede un profondo talento nell’intuire e memorizzare i dettagli di un caso. Nonostante la sua apparente perfezione, la vita privata di Hae-jun si consuma in un lento progredire fatto di inerzia e decadenza, un moto che ricorda da vicino la muffa che corrode le pareti della sua dimora. Vede sua moglie Jung-an (Lee Jung-hyun) raramente e anche in quegli sporadici episodi conviviali non riesce a godere della quiete domestica, anzi viene tormentato da un’insonnia che sembra destinata a distruggerlo.

La vita dell’agente inizia a cambiare quando, incappando in un caso di apparente suicidio, incontra la cinese Song Seo-rae (Tang Wei), vedova del defunto che sembra tutto meno che sconvolta dal recente lutto. Per quanto il caso possa sembrare di facile risoluzione, Hae-jun non riesce a fare a meno di trovare sospetta Seo-Rae, la quale, pur potendosi far scudo di un’alibi inattaccabile, è costantemente al centro di tutta una serie di indizi che sembrano indicarla come assassina. 

Ossessionato, il detective inizia a trascurare ulteriormente la sua vita privata per dedicarsi a pedinare la donna, la quale si rende conto spesso e volentieri di essere osservata dall’aitante uomo, avviando così un gioco relazionale che solca il confine tra manipolazione e sentimento e che con il tempo sfocia in una situazione di profonda risonanza emotiva. Jung-an è d’altronde come il suo vestito “blu, ma che in verità è verde”: potrebbe essere una diabolica manipolatrice, ma allo stesso tempo sembra essere un animo puro affamato di legami profondi. La “vera” identità del personaggio è cangiante a seconda della prospettiva adottata, una dimensione analitica che viene esplorata in tutta la sua complessità da Hae-jun, quindi dallo spettatore.

Park Chan-wook torna all’attacco

I film sviluppati da Park Chan-wook sono raramente prevedibili e a senso unico, anche quando iniziano come un percorso di vendetta non è raro che la loro strada finisca con il deragliare verso tematiche di giustizia o di tutela nei confronti dei propri cari. Decision to Leave è tutto meno che un’eccezione a questa formula consolidata. Ciò che formalmente si presenta come un mistero investigativo viene perlopiù usato come trampolino per sondare la complessità dei sentimenti umani e il come le relazioni possano alterare il nostro punto di vista sugli stessi e sul mondo. Certo, un alone di mistero ammanta l’intera vicenda e carpisce la curiosità degli spettatori, ma il copione a firma dell’iperconsolidata Jeong Seo-kyeong (Madamoiselle, Lady Vendetta) dedica solo una parte minore all’elemento thriller così da lasciar spazio alla costruzione dei personaggi e dei rapporti che li uniscono. Una poetica che viene peraltro spesso accompagnata dalla fotografia di Kim Ji-yong (Okja, A Bittersweet Life), la quale si focalizza su costanti giochi di riflessi e su geometrie spigolose ben studiate al fine di separare, nascondere e sovrascrivere la presenza degli attori in scena.

Il lungometraggio affronta a suo modo il concetto di amore e odio, di passione nei confronti di un qualcuno con cui non si può intrecciare la propria vita, di adattamento all’abbandono e di affetto imperituro e totalmente altruista, il tutto senza mai sfociare nello stucchevole. A livello di immagine, l’ambiguità della sfera relazionale viene esplorata attraverso immagini specchiate, costanti campi e controcampi e cambi focali progettati con ammirevole solerzia, con il risultato che per un minutaggio considerevole i due protagonisti faticano a esistere nella stessa inquadratura, una peculiarità che si affievolisce man mano che il loro rapporto si salda, ma che nei primi minuti di girato offre una soluzione artistica squisitamente elegante e raffinata.

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La frustrazione pulsa nella nebbia

Nonostante tutti i suoi pregi, Decision to Leave non è privo di difetti e peculiarità che finiscono con lo stridere con la bontà dell’opera nel suo complesso. In particolare, Park ha deciso di puntare su di una scelta audace che non necessariamente paga i suoi frutti, ovvero dividere la trama in due spezzoni separati tra di loro da un salto temporale di qualche mese. Il trucco tecnico è essenziale per esplorare il mutare delle emozioni e delle percezione dei personaggi, offre naturalezza a un percorso introspettivo che altrimenti sarebbe sembrato forzato, tuttavia l’esecuzione dello stratagemma pone lo spettatore in una situazione anomala

Al posto di proseguire il MacGuffin dell’indagine come forza trainante dell’opera, Park Chan-wook fornisce una conclusione al caso già dalla fine del primo atto, con il risultato che il pubblico si trova a metà film a brancolare nella nebbia, subendo uno spaesamento apatico e deprimente che “riflette” la condizione di abbandono vissuta dai due protagonisti. Non si percepisce un futuro, non si comprende la direzione che si sta intraprendendo e l’unico elemento che fa andare avanti è un’ignavia priva di coinvolgimento ed amore, una posizione grigia che il lungometraggio non manca di sottolineare anche rivedendo temporaneamente l’audacia stilistica della sua potenza estetica.

La logica dietro a una simile manovra è sublime, ma solleva non poche complessità nel momento in cui l’autore si trova alfine a soffiare sulle braci della trama per riaccendere la passione dello spettatore. L’epilogo riacquisisce infatti quella ricercatezza visiva e contenutistica che attanaglia allo schermo, ma il trauma subito dal pubblico durante la parte mediana dell’esperienza non ha il tempo di guarire completamente nella breve durata di un terzo atto che, pertanto, finisce con il sembrare frettoloso e grezzo.

Park Chan-wook torna al cinema con Decision to Leave, un film analitico che esplora in modo profondo la complessità dei sentimenti amorosi e dei rimpianti ad essi associati, ma lo fa arricchendosi di una cornice investigativa che saprà intrattenere anche i pubblici completamente impermeabili all’attrattiva del genere romantico. Ricco di elementi visivi particolarmente raffinati, il lungometraggio rappresenta un’ennesima pietra miliare del cinema sudcoreano, ma qualche intoppo gli impedisce nondimeno di raggiungere il pantheon delle opere passate del suo regista, autore che vanta nella sua filmografia alcuni dei capisaldi del cinema contemporaneo. Decision to Leave merita altresì di essere visto, anche perché le sue tematiche saranno in grado di toccare le corde profonde di alcuni spettatori particolarmente vicini alle emozioni vissute dai due protagonisti, creando un gioco di riflessi che saprà evocare emozioni vere.

Voto: 7.8