The Whale Recensione: claustrofobia dell’autodistruzione

The Whale

Le strategie adattive sono quelle che ognuno di noi mette in pratica, spesso senza rendersene nemmeno troppo conto, per far fronte a un trauma emotivo, allo scopo di gestire, ridurre o tollerare uno stress. Informazione fondamentale da tenere in mente se ci si vuole avvicinare alla visione di The Whale di Darren Aronofky, il cui protagonista è vittima proprio di una di queste scelte.

The WhaleThe Whale: studio delle esagerazioni

In Black Swan assistiamo a quanto qualcuno può spingersi in là per raggiungere la perfezione. In Requien For A Dream scendiamo nelle profondità di una spirale tossica. Questa fascinazione del regista verso le esagerazioni, le situazioni portate al massimo estremo, la ritroviamo anche in The Whale, rappresentata da Charlie (Brendan Fraser) e dal suo modo di vivere agli estremi, sia sociali che fisici. Per affrontare la perdita del suo compagno, Charlie si è rifugiato nel cibo, ingurgitandone il più possibile senza pensare troppo alle conseguenze e chiudendosi sempre di più in una vita di solitudine e distacco civico. Il film racconta una settimana, l’ultima, della sua vita, mostrandoci un personaggio ormai senza via d’uscita e il disfacimento di tutto quello che ha costruito, e distrutto, negli anni. Charlie è talmente tanto ingombrante da non riuscire più a sostenere qualsiasi attività motoria quotidiana senza un supporto esterno umano o meccanico e porta avanti il suo lavoro di insegnante online, fingendo di avere la webcam perennemente rotta. Sottrarsi dai giudizi altrui, evitare ogni contatto visivo con il mondo esterno, effettivamente, è forse la cosa che gli viene meglio e, con il tempo, è riuscito a escogitare svariati stratagemmi per tenersi isolato e al riparo da ogni tipo di incursione. L’unica eccezione è rappresentata da Liz (Hong Chau), amica, infermiera e sorella del suo defunto compagno, che cerca in ogni modo di prendersi cura di lui.

The WhaleUn lento processo

The Whale è un film che va digerito, capace di provocare sensazioni diverse ogni volta che ci si ripensa. Il primo impatto è prepotente e sofferente: vedere la vita di Charlie sullo schermo fa male, ti fa venire voglia quasi di distogliere lo sguardo, distrutto da un misto di pena e sofferenza condivisa con il protagonista. La sua impossibilità di vivere quelle che noi tutti giudichiamo come delle giornate normali, si schianta sullo spettatore con una forza spropositata. Ma questo forse non è per forza da considerarsi un merito. È come se Darren Aronofsky usasse l’obesità del suo personaggio come perno della comunicazione narrativa, senza preoccuparsi troppo di scavare all’interno dei processi cognitivi di questa situazione. Il perché ci si sia ridotti in questo stato è palesato fin da subito ed è impossibile non immedesimarsi, almeno per qualche motivo, in questa situazione di stasi e sofferenza. Il dolore e l’immobilità sono una presenza costante, ingombrante, pesante… eppure, forse a causa di un racconto lungo una settimana, sembrano fini a se stesse, una esagerazione emotiva messa in scena per ferire lo spettatore. Charlie è un agglomerato di scelte sbagliate, passate, presenti e future, ma niente di quello che fa sembra avere moventi e conseguenze profonde. Quello che il regista ha bisogno che lo spettatore sappia e comprenda viene facilmente spiattellato dai suoi personaggi, così da non doverlo andare a cercare altrove. E se all’inizio viene naturale pensare a The Whale come a un film sul dolore dagli impatti catastrofici, pian piano vengono fuori i suoi limiti, le profondità nascoste non analizzate e dall’immenso potenziale.

The WhaleIl peso delle proprie scelte

Darren Aronofsky non riesce a fare a meno di spettacolarizzare le dimensioni del suo protagonista, rendendole il centro di ogni sua azione e motivazione. Ed è strano come, invece, i personaggi che si interfacciano con lui durante la narrazione a questa cosa diano così tanta poca importanza. Liz, sua figlia Ellie (Sadie Sink), il giovane missionario Thomas (Ty Simpkins) e l’ex moglie Mary (Samantha Morton) riescono a non cadere in quei modelli di compassione e fissazione dello stigma che Charlie vive quotidianamente. Sono i suoi comportamenti a infastidire e alterare chi gli sta attorno, la sua testardaggine nel voler seguire un percorso autodistruttivo estremamente egoista, che fa capolino da un passato precedente alla sofferenza del lutto. Il suo modo di porsi con gli altri, distrugge il velo di pietà e comprensione che tanto acceca lo spettatore all’inizio, per cercare di portare a galla un animo instabile e malato, incapace di comprendersi e regolarsi, al limite di ogni spirito di condiscendenza e tolleranza. Ma se tutto questo, nel bene e nel male, riesce a trapelare dallo schermo, è principalmente merito delle performance degli attori, completamente a fuoco in ogni battuta e sguardo arrabbiato a spaesato, negli atteggiamenti spesso difficili da  accettare, ma mai sopra le righe. Nelle loro differenze e diffidenze, nel modo poco patinato e strutturato di affrontare le situazioni, si nasconde un senso di realtà impossibile da ignorare, pur distratti da una narrazione apparentemente grassocentrica.

Aronofsky sceglie un personaggio enorme, grande come una balena (riferimento non solo al modo in cui spesso vengono definite le persone di considerevole stazza, ma anche a Moby Dick, romanzo che ha una notevole importanza nelle connessioni emotive del film) e lo inserisce in uno spazio circoscritto, quasi claustrofobico, grigio e incolore, dimostrando ancora una volta la sua maestria nel saper comunicare sentimenti anche attraverso la costruzione scenica. L’impossibilità di Charlie di uscire dalla sua situazione, l’essere bloccato sotto tutti i punti di vista, si accalca sullo spettatore attraverso un sapiente, seppur monocromatico, uso di regia, fotografia e scenografia. Ma se non possiamo negare la capacità del regista di manipolare gli umori e raccontare di persone che cercano di trovare la propria strada al di là delle delusioni della vita, dobbiamo anche ammettere che The Whale tende a perdersi nelle sue grandi e vaghe ambizioni, molto più focalizzato sullo straniare attraverso l’enormità che sul dare sostanza a cosa si nasconde dietro tutto ciò.

Voto: 7.5