Giornalisti, redattori e persone di ogni tipologia e appartenenza troveranno sempre qualcosa sul quale discutere, una sorta di iceberg che contrappone due o più realtà. Ho letto il recente editoriale del mio Deputy Editor Marcello “Pavo” Paolillo contro quelli che chiama “videogiochi poetici” e, molto sinceramente, non mi sono trovata d’accordo. Questo, caro Pavo, è il nostro “iceberg-videoludico”. Da redattrice e collega di GamesVillage.it, testata sempre a favore del pluralismo, qui di seguito, ti spiego perché la penso diversamente da te.
Ci troviamo ormai di fronte ad un fenomeno ormai fin troppo comune, così tanto confuso da essere, per assurdo, fin troppo chiaro. Che siano punti di vista, ideologie, pregiudizi o poca informazione, spesso e volentieri i concetti di “interazione” e “difficoltà” vengono trascinati in un vortice a dir poco distruttivo, originando opinioni spesso poco chiare, non dettagliate o disinteressate. Dunque la domanda che vi pongo è questa: quanto, in un videogioco, è importante l’interazione? Ed è davvero l’unico termine di paragone per definire la difficoltà o la magnificenza dello stesso? “L’emozione, non ha voce”. Ovviamente, uno degli esempi più discussi è sicuramente quello di Journey: essenziale, minimalista, un titolo che racchiude in séil tutto e il niente, i colori forti, le musiche… una vera e propria esperienza. Tutto ha inizio proprio nel nulla: un non umano, completamente avvolto da leggere e sgargianti vesti, che abbracciano il suo corpo donandogli un sinuoso alone di mistero.
Un ego il cui destino viene affidato nelle nostre mani, senza se e senza ma: non un’indicazione, un suggerimento, né un consiglio. È proprio in questo modo che Jenova Chen vuole renderci completamente responsabili di quella forma di vita che racchiude in sé tutta la conoscenza del mondo, della vita, e che aspetta solamente di essere scoperta. Conoscenza alla quale si attingerà solamente proseguendo nel titolo: non sappiamo chi siamo, cosa dobbiamo fare, dove dobbiamo andare; gli unici indizi sono questi richiami provenienti dal deserto, che ci permetteranno di scoprire diversi oggetti, alcuni dei quali permetteranno di allungare la famosa sciarpa del protagonista, che continuerà a svolazzare per aria creando movimenti delicati che accompagneranno salti e cadute libere, altri oggetti invece avranno un alone quasi mistico ed idilliaco, volti appunto al conferimento di informazioni sulla storia del mondo con la nascita della civiltà. Oltre agli oggetti, sarà possibile incontrare altri misteriosi compagni di viaggio con i quali non sarà possibile comunicare tramite chat, né vocale né scritta, privi di nome, che molto curiosamente si affiancheranno a noi; l’unica comunicazione possibile è l’emissione sonora di note che fungeranno da richiamo verso il nostro amico ritrovato. Questo proprio perché le parole non servono, poiché la comunicazione è concepita completamente su un altro livello.
“L’essenziale, è invisibile agli occhi”
Proprio qui entra in gioco il discorso “interazione”: è essenziale e avviene tramite comandi base e minimali. È vero, Journey non è uno di quei titoli in cui bisogna premere tasti a profusione (stile prove alcoliche in Watch Dogs), proprio perché non è questo il suo obiettivo, anzi. Lo scopo è infatti quelli di attribuire alle minime interazioni e ad ogni piccolo gesto, la stessa importanza primaria che ha la narrazione. È proprio l’ambiente circostante che ci porge la mano invitandoci ad una danza senza eguali, danza che romperà quella parete chiamata solitudine, accompagnata da suoni poetici che compongono un morbido accompagnamento ad un sottofondo che, già di suo, completa un quadro di impatto che tocca non solo le corde emotive, ma ci regala una fantastica esperienza sensoriale. E come Journey, dapprima ICO, Myst, Another World, Flow, Flower e tanti altri, hanno investito tutto in un comparto differente dai soliti titoli: l’emotività, la logica, ma soprattutto la curiosità. Tra altri esempi più marginali abbiamo Fez e, perché no, The Witness (che ho amato e recensito, proprio qui), che sfatano il mito del “poca interazione=nessuna difficoltà”, poiché ricchi di enigmi ed indovinelli puramente logici.
Il tutto si basa, come già citato, sulla curiosità di scoprire mondi, persone, storie che si allontanano dai classici tripla A e ci accompagnano per mano alla scoperta di una storia tanto bramata, lasciando qua e là toppe avvolte nel mistero, dandoci la voglia irrefrenabile di continuare a giocare per capire l’insieme. Questo è quello che rispondo quando leggo o sento parlare dell’importanza dell’impatto emotivo in un videogioco, poiché interpreto lo stesso come un’esperienza ludica che, nel bene ed a volte nel male, lascia un impatto: ci ricordiamo di un titolo grazie a quello che ci fa provare, alla storia che racconta. Senza emotività un videogioco si accomuna semplicemente ad una determinata categoria, si etichetta, e per quanto sia bello dopo poco tempo perde completamente la sua identità (che in realtà non ha motivo di esistere) e viene semplicemente poggiato sullo scaffale. Davvero, dunque, l’emozione non conta? Davvero titoli molto differenti tra loro come The Last of Us, Final Fantasy, Bioshock, o addirittura Limbo, fino al recente Unravel, avrebbero lo stesso impatto senza questo elemento particolare. La lista è lunghissima, ma accomunata proprio da questo aspetto, a mio parere, FONDAMENTALE: un videogioco è un’avventura, e va vissuta come tale. Questo, ovviamente, è puramente il mio punto di vista, ma sarei curiosa di scoprire quale sia il vostro: carissimi lettori, è giunta l’ora di farsi sentire! Come in Civil War, è giunto il momento di schierarsi: siete con il Pavo-Iron Man o con la vostra Kat-Captain America?