Sono diversi anni che lo andiamo dicendo, ma fino a quando il concetto non viene ribadito da un illustre addetto ai lavori sembra sempre che si tratti soltanto dei vacui vaneggiamenti di vecchie cariatidi del joypad che non sanno (o non vogliono) più emozionarsi di fronte a nulla. Non nego di aver pensato di me la stessa cosa quando, di fronte all’ennesimo colosso del game design contemporaneo, avvertivo lo sconveniente spettro del deja-vu appollaiato sulla mia spalla… Non di meno, vi giuro di aver ormai perso il conto delle volte in cui ho scacciato a forza il sospetto che, setting, asset e prospettiva a parte, esperienze di gioco come quelle proposte da Assassin’s Creed, Far Cry, Tomb Raider, Spiderman e compagnia danzante fossero sostanzialmente sovrapponibili.

Ora, non posso essere del tutto certo che il buon David Jaffe, sommo artefice della classica trilogia di God of War, si riferisse esplicitamente a questi progetti quando ha parlato del rischio che i Tripla A siano condannati a morire di ripetitività, fatto sta che nel momento in cui ho letto le sue parole in giro sul web mi è subito balzata alla mente l’immagine del mio alter ego virtuale che vaga per la consueta immensità di pittoreschi solidi in cerca di collectible, nella vana attesa di incappare in una Quest che dia un senso al tutto. E già perché, salvata la pace di rare ed illustri eccezioni cui tutti sapranno dare presto un nome, è proprio questo che ci ritroviamo a fare subito dopo aver istallato l’ennesimo blockbuster stagionale sull’hard disk della nostra console preferita.

Come anticipato in apertura, la piaga in cui l’autore statunitense rigira il dito è in realtà lì da parecchio e seguita ad espandersi di “must buy” in “must buy” a conseguenza di un circolo vizioso che piega la creatività alle esigenze dell’investimento. Riproponendo dinamiche care al cinema più popolare, chi finanzia la produzione di questo o quel colosso multimilionario si attende, in altre parole, un ritorno economico adeguato allo sforzo profuso, il che spinge game designer e collaboratori a puntare sull’usato sicuro, laddove per “usato sicuro” si intendono format strutturali e soluzioni concettuali ben collaudate. Sulla base di questa premessa, l’eventuale volontà di valicare i binari e sovvertire i dogmi diventa chiaramente il più grave dei peccati: un vero attentato alla distorta tradizione del successo e, per estensione, un lusso che quasi nessuno osa più permettersi, pena l’esclusione preventiva dal tavolo dei grandi e l’implicita condanna ad una pericolante esistenza da indipendente. Ne deriva un desolante scenario da fast-food, in cui il videogame viene concepito e sviluppato in relazione alle aspettative che gli indici di gradimento attribuiscono all’utente medio, piuttosto che alle naturali esigenze di un parto creativo. Il risultato di un simile processo non può ovviamente riflettere gli estremi di un’opera autoriale, ma solo l’effimera avvenenza di un prodotto in cui c’è tutto ciò che ci si aspetta di trovare, ad eccezione dell’unica cosa che dovrebbe esserci davvero e cioè un’identità.

A questo punto potrei facilmente perdermi in tutta una serie di paralleli volti ad amplificare l’allarme lanciato da Jaffe o irrobustire i ricami che gli ho cucito intorno con qualche bell’esempio calzante, ma sono convinto che il nocciolo della questione non consista più nel riconoscere l’esistenza di questa problematica, bensì nel comprendere come se ne possa venire fuori. E se davvero esista la possibilità di venirne fuori.
Spoiler: superfluo, per non dire inutile, evocare una maggiore attenzione delle Major nei confronti della scena indipendente… Anche perché, da un po di tempo, essa sembra ispirarsi alla galassia dei Tripla A molto di più di quanto non accada in ritorno.