“Tutti in coro: buffoni!”. Furono proprio queste le parole con cui uno dei più noti magazine specializzati italiani inaugurò l’anteprima relativa al Dreamcast. Il resto dell’articolo? Una serie più o meno velenosa di giudizi alquanto tranchant volti a sentenziare il fallimento di un progetto neppure arrivato sugli scaffali dei negozi.
Al momento del debutto del Dreamcast, Sega controllava soltanto il 12% del mercato console, contro il 47% vantato da Sony. Grazie al contribuito del Game Boy Nintendo ne deteneva ancora il 40%, ma in ambito Home System i dati erano destinati a scendere drasticamente.
Tra le righe di questo linciaggio preventivo era senz’altro possibile leggere l’amarezza seguita alla rovinosa debacle registrata dal Saturn nel confronto con la Playstation ed è plausibile che attraverso quelle parole si volesse anche punire la politica marketing adottata da un’azienda rea di aver inanellato un’incredibile serie di infelici iniziative dopo il successo riportato dal Mega Drive. Sta di fatto che la console che avrebbe dovuto fungere da ideale trampolino di lancio per la riscossa del brand Sega si ritrovò a combattere sin dal principio contro una platea a dir poco ostile, il cui scetticismo non si sarebbe affievolito neanche di fronte ai prodigi più eclatanti. Anzi. Si può sostenere che ogni killer blow piazzato dalla macchina dei sogni in termini sofware andasse addirittura ad alimentare le aspettative nei riguardi della PS2, sua designata rivale.
L’architettura del Dreamcast ruotava intorno ad un processore Hitachi SH-4 32Bit RISC a 200 MHz, cui fu affiancato il processore grafico VideoLogic PowerVR2 della NEC. Avendo individuato nei porting diretti da PC un veicolo promozionale molto vantaggioso, Sega strinse accordi con Microsoft che culminarono dell’ integrazione di una Windows CE e il parallelo supporto di Direct X API e DDL.
Chiunque abbia mai posseduto un Dreamcast, non faticherà di certo a comprendere gli estremi di questo paradosso; a tutti gli altri basterà invece ricordare il mantra ripetuto ad infinitum dai più di fronte a capolavori quali Soul Calibur, Resident Evil: Code Veronica, Skies of Arcadia e Shenmue, quel “Sì, bello, ma tanto tra un po’ esce la PS2…” che sottitendeva, anche in questo caso, una preventiva certezza: a prescindere da ogni sforzo profuso dalla macchina dei sogni, la nuova console targata Sony avrebbe fatto comunque di meglio.
Come accaduto anche in passato, Yu Suzuki e il suo studio AM2 sarebbero stato gli elementi di punta del catalogo software a disposizione del Dreamcast. Il leggendario designer nipponico chiese ed ottenne carta bianca durante la realizzazione del kolossal Shenmue, i cui costi di sviluppo gravarono drammaticamente sulle casse della Sega.
Ora, non sapremo mai quante chance di successo avrebbe potuto avere il Dreamcast se fosse saltato fuori in un periodo meno sfavorevole, sta di fatto che nessun progetto meriterebbe di scendere in campo in un simile contesto, a maggior ragione quando al suo destino è legato il futuro di un’azienda che, al netto degli errori commessi, aveva fatto davvero tanto per l’emancipazione dell’industria. Se potessimo isolare il Dreamcast dal rispettivo background storico e lasciare momentaneamente fuori da ogni equazione i non certo esaltanti dati di vendita che ne affliggono il retaggio, ci ritroveremmo in ogni caso di fronte ad un quadro generale ben diverso da quello che dipingevano i media. Piuttosto che rappresentare l’ultimo, drammatico colpo di coda di una compagnia dal destino oramai segnato, esso appariva infatti come un sistema versatile, innovativo ed incredibilmente potente, le cui prestazioni avrebbero favorito l’inizio di una nuova Età dell’Oro per i videogame a struttura 3D.
Le stime di Sega auspicavano la vendita di almeno 1 milione di Dreamcast nel corso dei suoi primi 3 mesi di vita. Nel febbraio del 1999 le unità vendute non superarono tuttavia il tetto delle 900.000.”
A veder girare i titoli che ne accompagnarono il lancio giapponese, vale a dire Sonic Adventure, Sega Rally 2, Power Stone e Virtua Fighter 3 Team Battle si aveva, in altre parole, l’impressione che la major di Tokio avesse fatto davvero le cose in grande e che lo spettacolo offerto da questi ultimi desse finalmente corpo a molte delle ambizioni strutturali che macchine come Playstation ed N64 non erano ancora riuscite a concretizzare. E non ci riferiamo unicamente a parametri di natura tecnica, quali pulizia delle texture, ricchezza dei modelli poligonali, stabilità del framerate ed effettistica di contorno…
La scelta del nome della console venne vagliata dopo aver valutato circa 5000 proposte pervenute a Sega a seguito di un’iniziativa pubblicitaria indirizzata ai fan del brand. Inizialmente, la major aveva valutato diverse alternative come Blackbelt, Whitebelt, Dural e Katana. Alla fine si optò per Dreamcast: neologismo formato dalle parole “Dream” e “Broadcast” che sintetizzava al meglio le ambizioni del progetto.
Alcune delle soluzioni concettuali suggerite da Sonic Adventure e la sconcertante anteprima di Shenmue che gli acquirenti di Virtua Fighter 3 Team Battle si videro regalare in bundle col gioco, sottintendevano la palese volontà di spingere il videogame verso un nuovo stadio di completezza, in cui estetica sopraffina, narrazione dinamica e rinnovata interattività ne rappresentassero la novella essenza.
Pur non essendo esattamente un miracolo di ergonomia, il Pad del Dreamcast avrebbe lasciato un segno indelebile nell’evoluzione delle interfacce di comando. Merito dell’inedita ubicazione conferita alla levetta analogica, collocata ora sulla parte superiore sinistra del controller e non al centro, come sfoggiato invece dal famoso Pad N64 che ne favorì la reintroduzione. Questa soluzione è tuttora alla base dei sistemi di controllo moderni.
Al contrario di quanto accaduto con progetti pregressi quali Mega CD, Sega 32X e Saturn, i quali finirono essenzialmente per tradire le aspirazioni covate in rapporto dai vertici della compagnia, il Dreamcast sarebbe riuscito a mantenere gran parte delle promesse formulate al suo day one. Per certi versi – basto ad esempio pensare al robustissimo filo diretto che legò il suo parco esclusive alla florida sfera arcade dell’epoca o magari ai primi, validi tentativi di importare l’online gaming in territorio console – si può anzi sostenere che i risultati ottenuti dalla 128Bit color panna superarono persino le proiezioni più rosee.
Tra i vari primati accumulati dal Dreamcast durante il suo arco di vita figura anche quello di aver idealmente battezzato l’Online Gaming su Console. Alle valide conversioni di acclamati classici di genere quali Quake III Arena (2000) ed Unreal Tournament (2001), si andarono in tal senso ad aggiungere NBA 2K1 (2001), Phantasy Star Online (2000) e Phantasy Star Online Vers.2 (2001), con questi ultimi volti ad esplorare le potenzialità della galassia MMORPG.
Ma allora perché i conti finirono per non tornare? Possibile che la sola attesa della PS2 o il generale pregiudizio dalla stampa potessero da sole avere la forza di stroncare un’iniziativa tanto vincente? La tentazione di rispondere positivamente al dilemma è senz’altro pressante, ma sarebbe ovviamente ingiusto sostenere una tesi del genere. Se è vero com’è vero che questi elementi contribuirono a danneggiare sensibilmente l’immagine del progetto agli occhi del pubblico è altrettanto innegabile che il “sogno” avesse i suoi bei costi e che Sega non fosse certo nelle condizioni più adatte ad ammortizzarli. Senza usare eufemismi di sorta, si può dunque affermare che l’azienda si trovasse sull’orlo del baratro ancor prima che la macchina approdasse sul mercato e la produzione di un Kolossal da 100 milioni di dollari quale Shenmue non fece che inasprire gli estremi dello scenario. In assenza di un piano marketing degno di sostenere gli standard commerciali imposti nel frattempo da Sony, la grande S finì in questo senso col restare a secco sul più bello e cioè al momento di pianificare il debutto occidentale della macchina.
Il Dreamcast non avrebbe sfruttato una Memory Card tradizionale. Lo stoccaggio dei dati di gioco veniva gestito attraverso la Visual Memory Unit (VMU), un’innovativa periferica in grado di fungere anche da handheld di supporto alla console madre, tramite cui sarebbe stato possibile accedere a vari mini game e visionare eventuali sotto menù.
Piuttosto che rappresentare una proficua opportunità economica, detta manovra comportò in effetti una nuova emorragia di fondi che l’azienda non riuscì ad arrestare per tempo anche a causa del mancato appoggio di brand come Electronic Arts, Konami e Squaresoft i quali, molto più interessati a coltivare la partnership con il colosso Playstation, le negarono sin dal principio il supporto di tutte quelle hit avrebbero potuto incrementare le vendite dell’hardware. Da qui la storica deflagrazione dell’assetto societario con tanto di repentina ripartizione degli sviluppatori first party in tanti studi satellite a budget indipendente e l’inevitabile resa propiziatasi a soli 3 anni dall’inizio dei giochi con l’arresto della produzione della console.
Il Dreamcast debuttò in Europa il 14 ottobre del 1999. La dismissione della console si sarebbe verificata 2 anni dopo, il 31 marzo del 2001 fermando le vendite hardware sulla soglia dei 9.3 milioni di unità worldwide.
Al di là dei sogni di riscossa covati da Sega; al di là delle risicate chance di successo di una scommessa che il contesto mediatico maturato in quegli anni aveva reso proibitiva sin dal principio; al di là del suo inesorabile fallimento commerciale, il Dreamcast sarebbe in ogni caso riuscito lasciare un segno indelebile nella storia di quest’industria, passando agli annali come una delle console più innovative e performanti di sempre. I cinici potranno definire questo traguardo al pari di una mera vittoria di Pirro, ma chi ebbe modo di metterci su le mani conoscerà senz’altro il reale valore di quest’impresa. Perché aver posseduto un Dreamcast, averlo amato e aver vissuto in prima persona le emozioni di cui fu foriero è una di quelle esperienze che ti cambiano dal profondo, facendo di un semplice utente un gamer più consapevole, se non addirittura un privilegiato.