Frozen 2 – Recensione

Frozen 2

Frozen 2 è un film che parla di elaborazione del lutto, di legami recisi ma che in qualche modo rimangono connessi in una dimensione eterna e iperuranica, che ogni giorno comunica con noi nel profondo e ci chiama a diventare ciò che siamo. Interessante notare come, due delle tre opere che ho avuto il piacere di recensire quest’anno, parlino proprio dell’argomento che per eccellenza regola le vite e i destini degli uomini: la perdita dei nostri cari e il viaggio solitario verso un Ignoto che ci attende chissà dove.

L’incipit può sembrare pretenzioso per parlare di un film per bambini, ma disquisire d’altronde di Frozen 2 in termini esclusivamente tecnici, afferenti tanto alla storia che all’aspetto visivo, è penoso per il lettore e non cambia che a farlo sia un semplice osservatore dalla strada o qualcuno che ha invece la reale competenza per rendere giustizia alla sublime qualità della tékne esibita sullo schermo. Di fronte a una compiutezza formale cristallizzata da Walt Disney e dalla storia dei suoi studi di animazione, una sintesi artistica e tecnologica capace ormai di rasentare la perfezione, che cosa rimane dunque a una persona chiamata a criticare opere come Frozen 2? Semplice: la bellezza di riscoprire di essere subalterni rispetto all’Autore (che sia Walt Disney o Hideo Kojima) e offrire il servizio migliore che si possa garantire, ovvero interpretare e raccontare il significato di quanto i creatori del film hanno realizzato, illustrando il senso della loro creazione e il modo in cui essa si colloca nello spirito del tempo.

Opere come Frozen 2 fungono d’altronde da “guardiani della soglia” di una nobiltà spirituale che assurge a Bellezza; del resto, la scelta del termine Rinascimento Disney, usato per inquadrare il momento storico della compagnia rappresentato dall’uscita de La Sirenetta, e recuperato poi proprio per parlare di Frozen, non è mai stata casuale. Frozen 2 è un film sui valori ancestrali della famiglia, che parla di legge morale, spiritualità e connessione con la natura nella cornice di un’epopea fantasy che alterna ambizioni operistiche, incanto fanciullesco e, inevitabilmente, un certo grado di cinismo industriale, banalmente necessario per permettere all’opera di esistere. Le sporadiche concessioni al lirismo che permea l’opera (la canzone di Kristoff ne è un ottimo esempio) non vanno viste quindi dal critico come sbavature stranianti in un’integrità assoluta, ma bensì come decisioni creative consapevoli che tradiscono l’inevitabile natura commerciale dell’opera. L’incantamento Disney sta anche nel farci credere che dietro la meraviglia, suscitata dal Castello della Bella Addormentata a Disneyland o da film come questi, ci sia pura arte incontaminata da logiche capitaliste; tuttavia, volendo tracciare un paragone sicuramente blasfemo e impreciso, l’idea che molto di quello che si vede a Firenze scaturisca dalla volontà di una famiglia di illuminati banchieri, con molto denaro e altrettanta necessità di farlo girare, ha mai disturbato forse un qualunque turista?

Credo che la frase di Hideo Kojima, che parlava quest’estate di “industria di servizi con ambizioni artistiche”, sia anche quella che ho citato più volte quest’anno e ovviamente si applica anche a un prodotto culturale come Frozen 2, che non certo per caso ha molti punti in comune con la natura artistica e produttiva di Death Stranding. Con buona pace di una certa frangia dell’accademia che, sulla base di alcuni pensieri legittimamente espressi a suo tempo da Eco, continua nel 2019 a relegare Walt Disney alla cultura pop nell’accezione mikebongiorniana del termine, spesso dimenticando di rivolgersi al signor Dalì o al signor Eisenstein qualora servisse una referenza sull’effettivo talento di un umile cartoonist di Kansas City.

Persino la zuccherosità spesso attribuita alle creazioni Disney, intelligentemente dissacrata da Matt Groening e in genere dal mondo fumettistico underground, ha subito una certa evoluzione di linguaggio, facendo leva sul personaggio di Olaf, che da spalla comica brillante ha subito una trasformazione in bambino esistenzialista alle prese con la crescita e l’inevitabile passaggio del tempo, sballottato qua e là in un mondo che ha ereditato da adulti irresponsabili e problematici (sì, ho pensato a BB nel scriverlo). Non è un caso che a ogni apparizione di Olaf sullo schermo corrisponda matematicamente un’ondata di risate e schiamazzi vari da parte dei bambini in sala, che in una domenica pomeriggio compongono in effetti il 90% dell’audience in sala. Olaf, con l’universale comicità slapstick che viene dritta da Charlie Chaplin e Stanlio e Ollio, nonché dalla Golden Age dei corti Disney, è costruito su misura per piacere ai bambini del 2019, svegli, intelligenti e con una proprietà di linguaggio spesso aliena ai boomer e ai millennial nati prima del 2000, frutto della facilità con cui un bimbo oggi ingenuamente accede a concetti complessi come la natura del tempo o la mortalità del pianeta e dei suoi abitanti.

L’empatia che il film riserva per tutti i suoi spettatori, furbescamente differenziata per target, è assolutamente manifesta nel personaggio di Elsa. Chiamata a incarnare il ruolo di eroe in un film che presenta tratti di coralità pur non essendo corale, Elsa è una protagonista figlia del suo tempo: andando oltre il concetto di donna che si salva da sé, definito innovativo solo da una critica che ignora la forza aggraziata insita in figure femminili solo apparentemente fragili quali Biancaneve e Cenerentola, Elsa incarna un concetto di eroe individualista alla Robinson Crusoe la cui volontà trae radici dalla sua essenza più profonda. Quelle radici, dunque, non possono che appartenere alla famiglia, di cui fanno parte tanto gli amorevoli genitori di Anna ed Elsa, ma anche agenti negativi responsabili di fratture profonde che perdurano attraverso le generazioni. La profondità e la quantità di livelli di lettura presenti in Frozen 2 è tale da rendere ancora più chiaro lo studio condotto da Walt Disney per produrre l’impatto sull’immaginario collettivo che ha avuto il personaggio di Elsa, icona universale come Luke Skywalker o Harry Potter, ma perfettamente calata nello spirito della nostra epoca. Let It Go, un inno alla diversità tanto fiabesco quanto meravigliosamente flamboyant (al punto da diventare iconico per molte persone appartenenti alla comunità LGBTQI+) esprimeva nel primo film la liberazione di Elsa da una repressione del proprio ego così potente da essere sfociata in depressione.

Nell’animo di Elsa, d’altronde, rivive lo struggente dramma dell’anima creatrice, unica, speciale e dunque incomprensibile per l’altro da sé, l’entità misteriosa che rappresenta contemporaneamente il grande nemico e alleato di ogni artista che sceglie di salire su un palco. La sequenza parallela che vediamo in Frozen 2, Show Yourself, prosegue idealmente la narrazione di Let It Go, raccontando la maturità di una nuova Elsa, che nella riscoperta delle proprie origini diventa consapevole della propria ontologica diversità e unicità rispetto al mondo. Ogni Classico Disney è del resto quasi sempre una storia che parla di artisti creata da artisti, e il seguito di Frozen non fa eccezione, illustrando ai più piccoli, tuttavia, che c’è una magia ancora più speciale del saper creare castelli di ghiaccio, ed è l’agire morale di chi, come Anna, è di animo gentile e persegue grazia, virtù e umanità nei gesti di ogni giorno. In fondo ogni Elsa, e con lei ogni sognatore strano e incapace di stare a contatto con le altre persone, ha bisogno della sua Anna.

In film come Frozen 2 scorre quindi la memoria di una morale antica e millenaria, e il concetto di disneyfication, spesso usato in termini dispregiativi proprio per stigmatizzare l’appropriazione culturale operata nei nostri confronti dall’egemonia statunitense, andrebbe rivisitato piuttosto nell’ottica di conservazione di un’eredità artistica e artigianale altrimenti destinata ad andare perduta. Nel paradosso, l’ottundimento creativo provocato dall’ascesa degli eroi in tuta messi sotto contratto da Disney, è un male necessario per permettere a Walt Disney Animation Studios di continuare a sperimentare liberamente e investire in ricerca tecnologica applicata al racconto per immagini. Ben lungi dall’essere un film reazionario, è abbastanza chiaro d’altronde che sperare in una compagna per Elsa era del tutto utopico, nella misura in cui il film deve legittimamente rispondere a un mercato frammentato e internazionale, dove l’omosessualità di un’icona/brand rischierebbe di alienare una fetta di pubblico consistente. State tranquilli, comunque: la Sirenetta di origini caraibiche è già fortunatamente realtà e nel mentre, a fare da apripista per l’ingresso di personaggi canonicamente omosessuali nel mondo Disney, ci penseranno proprio gli amatissimi paperi di Barks, con lo showrunner di Duck Tales che sta per introdurre tale tematica nella prossima stagione della sua serie. La resistenza è futile, direbbe qualcuno, ma i veri Borg oggi sono gli ignoranti incapaci di abbracciare la naturalezza inevitabile del cambiamento.

Tornando al film, Elsa è un personaggio randiano nell’estetica e nietzscheano nella sostanza, un individuo che non dev’essere salvato da niente e nessuno, uomo o donna che sia, incarnando piuttosto la figura dell’eroe romanticamente condannato alla solitudine del titanismo. La metafora viene didascalicamente rappresentata nella scena madre, lo scontro tra Elsa e il mare in tempesta, letterale trasposizione animata di un quadro di Friedrich. Non per niente il dialogo tra Disney e la cultura artistica e filosofica europea è così smaccatamente chiaro che Anna, nel primo film, parlava a dei quadri di ispirazione neoclassica: gli artisti americani, va detto, non saranno mai ricordati per il loro essere sottili…

Il sequel di Frozen porta quindi la protagonista a compiere un percorso inverso rispetto a quello del primo film, abbracciando l’individualismo senza denigrare con tracotanza la collettività, una crescita che rasserena temporaneamente i dolori della giovane Elsa, in attesa, direbbe Olaf, di una nuova catastrofe scatenata dalla ragazza (che, non dimentichiamolo, in produzione nacque pur sempre come villain). Accostare lo Sturm und Drang a Frozen 2 è fortunatamente solo un vacuo esercizio intellettuale, del tutto irrilevante quindi per quei milioni di persone che stanno vedendo il film al cinema in questi giorni; ma è tuttavia sintomatico di una crescita intellettuale dell’entertainment disneyano che, rimanendo saldo a una visione ideale di cinema come veicolo di narrazione visiva ancor prima che testuale, ha ormai staccato di diverse lunghezze anche la scuola Pixar, “rea” oggi come oggi di non essere andata oltre il pinnacolo creativo raggiunto da Up di Pete Docter (che tuttavia con Soul sembra intenzionato a toccare nuove vette di densità tematica nell’ambito dell’animazione).

Interattiva o lineare che sia, l’arte è oggi chiamata a rispondere alla missione di insegnare piuttosto che distrarre. Fortunatamente la crescita dei linguaggi è inarrestabile, ed è interessante notare come le sperimentazioni creative più vive e di successo del momento provengano da universi produttivi spesso snobbati dalla cultura alta, come l’animazione e, in misura ancora più evidente, le opere interattive.

Che si parli di Spiaggia, o di Ignoto, di Disney o Kojima, l’intento degli autori è ribellarsi al nichilismo disumanizzante di chi è cinico e gretto, ritrovando la sacralità nelle vicende della nostra specie e di questo pianeta. La destinazione è il nostro Io, il viaggio è la ricerca di grazia e senso persino nell’orrore cosmico della morte. Abbandonando le sovrastrutture becere di una crescita non sostenibile, che persino nell’entertainment ha evidentemente generato solo disagio e povertà spirituale fino all’inevitabile crisi, opere del genere elevano quindi inconsapevolmente lo spettatore, come fecero ai loro tempi Biancaneve o La bella addormentata nel bosco, risvegliando nei giovani spettatori un senso di meraviglia eterna che condurrà, auspicabilmente, a una riscoperta collettiva del valore immortale e oltremodo prezioso della Bellezza.

Proviene da un lontano pianeta, ma ha deciso di stabilirsi sulla Terra perché qui ci sono i videogiochi più belli. Ama la Nintendo e i JRPG (più sconosciuti sono meglio è), e aspetta il giorno in cui potrà trasferire la sua coscienza in un essere sintetico.