Life is Strange 2, Recensione dell’Episodio 5 “Wolves”

Delusi. ƈ esattamente con questo stato d’animo che abbiamo spento la PlayStation 4 al termine della seconda stagione di Life is Strange. Una stagione che difficilmente avrebbe potuto concludersi in maniera peggiore, anche se, a voler guardare ai passati avvenimenti sotto una nuova luce, il disastro era cominciato ben prima di questo quinto episodio, intitolato Wolves. Fin dagli esordi, lo scorso settembre, era apparso chiaro a tutti che le vicende dei fratelli Diaz avrebbero dovuto sudare e sgomitare per conquistarsi un posto nel cuore dei giocatori, soprattutto di quelli che ancora serbavano vivo in mente il ricordo della magnifica opera originale e dello spin-off di Deck Nine, Before the Storm. Nonostante questo, nel corso dei primi quattro episodi Life is Strange 2 non ha fatto poi molto – se si esclude il buon Wastelands – per confermarsi agli stessi livelli del passato, con un ritmo sonnacchioso e una strutturazione narrativa problematica, incapace di mettere in risalto i veri punti di forza della serie: l’introspezione, la cura nella scrittura dei personaggi secondari, i complessi rapporti umani che si venivano a creare. Wolves, suo malgrado, rappresenta la definitiva sublimazione dei problemi emersi fino ad oggi, e segna un capito(mbolo) finale che fa persino più male di quanto ci saremmo aspettati.

N.D.R. Non proseguite nella lettura se non avete giocato i primi quattro episodi: Roads, Rules, Wastelands e Faith.

Dov’eravamo rimasti

“L’unica cosa che conta ĆØ il finale. La cosa più importante della storia ĆØ il finale, e questo funziona a meraviglia, anzi, ĆØ perfetto.” Eh… magari potessimo esprimerci anche noi come Mort Rainey (Johnny Depp) in quella piccola gemma cinematografica che ĆØĀ Secret WindowĀ (spoiler nel link, occhio!), tratto da un celebre racconto breve di Stephen King.

Da dove cominciare, dunque, per parlare in maniera compiuta della conclusione di questa seconda, triste stagione di Life is Strange? Partiamo da dov’eravamo rimasti: al termine del precedente episodio, dopo aver tolto di mezzo senza troppi complimenti un paio di fanatici religiosi che sarebbe un eufemismo definire “improbabili”, Sean e Daniel si sono finalmente ricongiunti tra loro e con la madre, Karen, assente dalle loro vite da quasi dieci anni. In veritĆ  le vicende, per la primissima parte, funzionerebbero anche: la narrativa ĆØ perlopiù incentrata sullo sviluppo (benchĆ© non troppo pronunciato) del rapporto fra la madre e i due figli e della ricostruzione del legame spezzato tra Sean e Daniel, che comunque – passate sette settimane dal precedente epilogo – viene ricucito senza troppi problemi. Tutto sembra poter ritrovare una propria coerenza e collocazione, soprattutto nell’ambito dell’insediamento nel deserto dove la madre dei ragazzi vive insieme ad altre persone, volutamente emarginatesi dalla societĆ .

Si fa cosƬ la conoscenza di una stramba artista di mezza etĆ  dai connotati un po’Ā hippy, oltre che di due uomini che hanno capito di provare un sentimento reciproco e sono fuggiti dalle loro vite per poter stare insieme. Nella comunitĆ  c’ĆØ poi un altro personaggio, sul quale non vi vogliamo dire nemmeno una parola: scoprirete da soli il perchĆ©, anche per via del fatto che le quattro chiacchiere che si fa in tempo a scambiare con lui – un momento brevissimo in rapporto al suo significato – rientrano di diritto fra gli eventi più interessanti e profondi non solo dell’episodio, ma dell’intera stagione. E questo ĆØ tutto dire. Le brevi fasi ambientate ad AwayĀ (cosƬ si chiama il piccolo gruppo di caravan e roulotte nel bel mezzo di un cimitero d’auto) possono sembrare piacevoli sulle prime, ma presto o tardi finiscono per mettere in risalto la desolante differenza tra i pochi personaggi ben caratterizzati e i tanti altri che invece, nonostante gli sforzi di Dontnod, non hanno proprio nulla da dire.

Ostacoli insuperabili

Sean e Daniel, per esempio: abbiamo provato ad affezionarci a loro per tutto il tempo, ma non c’è stato nulla da fare. La veritĆ , senza girarci troppo attorno, ĆØ che la loro storia non ĆØ credibile. Non ĆØ credibile il modo in cui ĆØ cominciata, non ĆØ credibile come ĆØ proseguita e soprattutto non lo sono le loro reazioniĀ ai momenti dolorosi che pure devono attraversare ogni due per tre.Ā Tolte, ripetiamo, quelle avute nell’episodio 3, quando (che casualitĆ , eh?) si sono trovati in compagnia di qualche coetaneo. Non ĆØ credibile neppure il loro rapporto e il paragone animalesco (forzatissimo) coi lupi, portato avanti – con nemmeno troppa convinzione – per tutto l’arco narrativo. Senza metterci a fare un riepilogo dell’intera stagione,Ā il quinto episodio rappresenta probabilmente un sunto di quanto entrambi i ragazzi siano emotivamente costruiti in maniera piatta, pur piangendo e disperandosi – e qui sta il paradosso – per buona parte del tempo.

La loro madre, Karen, avrebbe potenzialmente potuto essere un personaggio più interessante, anche per il difficile rapporto con i due ragazzi e per la necessitĆ  di tenere insieme, nonostante tutto, i cocci dell’intera vicenda familiare.Ā Eppure anche la sua storia, che potrebbe fungere da ottimo mattone per dare un significato a un quinto episodio altrimenti tristemente insipido, viene trattata in maniera scandalosamente affrettata e per larghi tratti incomprensibile, relegando molti degli aspetti più profondi (il rapporto coi genitori, nonni di Sean e Daniel, e la sua visione generale del mondo) a due foglietti opzionali da leggere. A costo di ripeterci, la narrativa di questa seconda stagione di Life is Strange ĆØ un continuo paradosso, accentuato soprattutto da una progressione non più circolare, ma strutturata come una sorta diĀ road movieĀ che, malgrado gli apprezzabili spunti iniziali, a posteriori proprio non funziona (non a caso l’episodio migliore, il terzo, ĆØ stato anche il più statico). La controversa decisione di Dontnod impedisce di affezionarsi ai personaggi secondari o di trovare uno sviluppo coerente nelle vicende, per non parlare delle conseguenze delle proprie scelte in gioco, che si riflettono quasi soltanto sul rapporto tra Sean e Daniel: i risultati, neanche a dirlo, emergono in maniera artificiale e innaturale in un paio di goffi siparietti, faticando a trovare un qualche risvolto più profondo se non nell’affrettata conclusione.

Il quinto episodio, insomma, esaspera al limite massimo tutte le magagne che i quattro predecessori hanno spesso abilmente nascosto o rimandato: arrivati alla fine, però, Life is Strange 2 deve fare i conti con sĆ© stesso, e tutto crolla come un castello di carte. Spiegarvelo senza spoiler, nemmeno velati, ĆØ una vera e propria impresa: sappiate soltanto che se sperate di vedere qualcosa di ā€œdiversoā€ o di difficilmente prevedibile nel finale della serie, beh… siete completamente fuori strada.

Uno psicodramma etnico

Non parliamo poi delle tematiche sociali di cui le ultime fasi della storia traboccano fin quasi a scoppiare: si può dire senza timore di smentita che l’intera parte finale ĆØ stata strutturata attorno ad un vero e proprio psicodramma etnico-razziale, che in parte vede protagonisti anche i due fratelli, loro malgrado. Dontnod, che ĆØ sempre stata maestra nel raccontare storie simili con incredibile finezza, cade preda di un incomprensibile buonismo, approfittando di una parte conclusiva che giĆ  di per sĆ© si stava tranquillamente liquefacendo come neve al sole per denunciare in maniera ancor più aperta il sovranismo imperante negli Stati Uniti al giorno d’oggi. Sacrosanta come scelta, per caritĆ : si tratta di una software house con artisti e creativi che hanno le proprie idee e tutto il diritto di esprimerle attraverso le loro opere. Peccato che certe contrapposizioni vengano trattate in modo ridicoloĀ e senza limitarsi a denunciare la realtĆ  di tutti i giorni, come in passato era talvolta stato fatto in maniera ben più elegante. Qui, al contrario, si arriva alla classica lotta di frontiera che contrappone ā€œpatriottismo cattivo” e “immigrazione positivaā€, un concetto di per sĆ© giĆ  piuttosto estremizzato e che – per quanto ben rappresentato in via potenziale – nei modi avrebbe potuto essere trattato in maniera molto meno banale e stereotipata. Il tempo a disposizione per la conclusione delle vicende era quel che era, ma forse non c’era granchĆ© bisogno di inserire determinati elementi e tematiche dovendole poi trattare in questo modo.Ā 

Più o meno in quel momento (non vi diciamo cosa succede dopo, anche se potete arrivarci) la serie termina, arrestandosi – in tutti i sensi, ĆØ il caso di dirlo – contro un vero e proprio muro. Gli ultimi minuti, se sul momento sono in grado di generare un discreto pathos, vi lasceranno con un boccone amarissimo e difficile da ingoiare, considerato che la strada intrapresa per arrivare al classico bivio finale (che può diramarsi anche in più modi, in realtĆ ) ĆØ mal pensata e costruita: vi basti sapere che una fra le due scelte viene suggerita molto prima dell’effettiva conclusione e spinge i due protagonisti in un imbuto senza uscita, nel quale l’unica possibile discriminante ĆØ data dall’uso dei poteri di Daniel e da tutta una serie di sfumature che emergono a seconda della conclusione che, in base al proprio percorso, si arriva a raggiungere. Un finale che, in ogni caso e considerata ogni variabile, non ha nulla a che vedere con quelli di quattro e due anni fa, sia se preso a sĆ© stante, sia nell’ambito di un episodio nel complesso deludente, dove le poche cose che funzionano vengono presto o tardi archiviate in funzione del prosieguo e della conclusione di una storia che non riesce mai ad appassionare. E per un Life is Strange, concludere l’analisi con questaĀ affermazione significa giĆ  tutto.

Life is Strange 2: Wolves segna la rovinosa caduta di una serie che finora Dontnod aveva a stento cercato di tenere insieme, rinunciando, specie negli ultimi due episodi, a far decollare la narrativa e anzi costruendo un finale totalmente privo di significato, atono e anticlimatico, senza emozioni. Se siete riusciti ad affezionarvi a Sean e Daniel (e ce ne vuole, credeteci), probabilmente, nell’ambito del vostro giudizio soggettivo, sarete capaci di salvare in extremis anche questa seconda stagione. Dal canto nostro, invece, tutto si ĆØ risolto in una cocente delusione, che ha definitivamente spento ogni speranza di veder raccontare una storia memorabile – e non solo discreta – all’infuori di quel microcosmo perfetto che rispondeva al nome di Arcadia Bay.

Nato nello scorso millennio con una console fra le mani e rimasto per molti anni confinato nel mondo distopico della Los Angeles del 2019, ha infine deciso di uscirne per divulgare al mondo intero le sue più grandi passioni: il videogioco in tutte le sue forme, il cinema (quello vero) e Dylan Dog.