Il Buco Recensione

Il Buco

Un unico ambiente grigio, minimalista, che si estende a perdita d’occhio verso l’alto e verso il basso. Apparentemente infinito, questo edificio infernale ha però un inizio e una fine tutti da scoprire. All’interno di questo si snodano le vicende di Il Buco, nuovo film distribuito su Netflix a partire dal 20 marzo, diretto dall’esordiente regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia. Una storia che tra fantascienza e horror si pone come grande metafora della società odierna e della sua gerarchia. Affascinante, con diverse buone trovate di regia, ma preoccupantemente banale nel suo messaggio di fondo.

Protagonista del film è un uomo di nome Goreng, il quale si risveglia in quello che viene chiamato il buco. Questo edificio, composto da innumerevoli piani, presenta un foro rettangolare al centro di ognuno di questi. Da qui passa una piattaforma che è anche una tavola imbandita. Il meccanismo è semplice: chi sta più in alto ha la possibilità di sfamarsi, chi si trova ai livelli inferiori avrà da mangiare solo gli scarti.

Il buco film

La gerarchia della società attuale

Tutto ciò che ci occorre sapere sul film, la sua costruzione, le sue regole e le conseguenze per chi le trasgredisce viene rivelato nel primo quarto d’ora del lungometraggio. Quindici minuti in cui si è, passo dopo passo, introdotti nell’orrore di quella che non è altro se non una rappresentazione concreta della suddivisione delle classi sociali. Divisione che oggi potrà sembrare meno apparente ma che sussiste senza troppi problemi sotto gli occhi di tutti.

L’opera svela così ben presto il suo intento di raccontare una storia inscindibile dalla metafora a cui è legata. Difatti, senza il discorso socio-politico che lo contraddistingue, non ci sarebbe infatti alcuna pellicola. Tutto è dunque costruito a partire da questo presupposto. I vari livelli di questa prigione, come verrà poi anche detto dallo stesso protagonista, non sono altro se non una reinvenzione dei gironi infernali della Commedia di Dante. Un lungo abisso nel quale è possibile ritrovare ogni più disparata personalità umana, da quella più caritatevole a quella più barbara e animale.

Nel suo percorso, il protagonista, che sempre più andrà identificandosi con la figura del Messia, attraverserà diversi di questi piani, portando così concretamente lo spettatore ad assistere a quanto esposto in quei primi quindici minuti iniziali. Si compie così la metafora di chi sta sopra e di chi sta sotto, dei salvati e dei sommersi, di chi potrebbe razionare il cibo e lo spreco, per permettere anche ai più fortunati di sopravvivere, e invece lascia prevalere il proprio istinto animale, il proprio individualismo a scapito di chi viene dopo. Un messaggio che probabilmente in questo particolare periodo più che mai è possibile vedere concretizzarsi in chi fa razzia ai supermercati lasciando poco o nulla per gli altri, non meno bisognosi di lui.

Il buco Netflix

La metafora è il messaggio

Il format del film è certamente accattivante, e il giovane regista riesce a mettere in scena una gamma di soluzioni che non fanno avvertire il peso di trovarsi sempre e comunque all’interno di un unico ambiente. Vi è infatti una varietà nella scelta e nella composizione delle inquadrature che non affaticano la visione, ma anzi esaltano gli aspetti più affascinanti dell’idea di partenza e della sua realizzazione.

Il problema nasce nel momento in cui, compreso il meccanismo e le sue regole, il prodotto dimostra di avere ben poco di più da mostrare. Di per sé, la metafora sulla suddivisione delle classi è cosa ben poco originale, qui rappresentata attraverso un’idea di scenografia che rasenta il didascalico. Oltre a ciò, come si diceva, la pellicola non sembra compiere un vero e proprio percorso, arrivando ad un finale che potrebbe facilmente non essere tale.

Il Buco arriva così ad essere schiacciato dalla metafora che vorrebbe raccontare, trita e ritrita, e anche quei guizzi di originalità vengono a perdersi all’interno di risvolti narrativi se non prevedibili piuttosto superflui. Ciò che forse è peggio, è la totale mancanza di più di una chiave di lettura del film. Esso è quello stesso messaggio, e non ve ne sono altri a cui può essere ricondotto. Non vi sono domande che lo spettatore può porsi, la sua unica soluzione è restare ammutolito nel vedersi sbattuta in faccia la violenza dell’uomo. Purtroppo, quando una cosa viene detta in modo tanto esplicito perde del tutto la sua effettiva possibilità di scuotere  più profondamente le coscienze.

Gianmaria è sempre stato un grande appassionato di cinema e scrittura, tanto da volerne fare la sua professione. Studiando queste materie all'Università decide di fondere le sue passioni nella critica cinematografica e nella scrittura di sceneggiature. Tra i suoi autori preferiti vi sono Spike Jonze, Noah Baumbach e Richard Linklater.

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