Si apre con una semplice ma comunicativa immagine il film Buio: una giovane ragazza, nuda, dall’oscurità di una soffitta guarda la luce provenire da un’unica piccola finestra nel tetto. Un’immagine che in sé sembra racchiudere l’intero cuore del lungometraggio, macchiato di dolore e animato da speranza. L’opera diretta da Emanuela Rossi, e presentato nella sezione Alice nella Città, della scorsa Festa del Cinema di Roma, era pronto già in autunno, ma arrivando solo ora disponibile al pubblico attraverso la piattaforma MyMovies, sembra trovare la sua più idonea collocazione. Questo perché Buio è un prodotto che parla di una quarantena in un periodo in cui tale reclusione è anche la realtà per lo spettatore.
Stella (Denise Tantucci), diciassette anni, vive con le due sorelle più piccole, Luce ed Aria, in una casa dalle finestre sbarrate, una sorta di eterna quarantena. Ogni sera, il padre (Valerio Binasco) rientra, si spoglia della maschera antigas e della tuta termica, porta il cibo e aggiorna le figlie con i racconti dell’Apocalisse in corso, che continua a decimare l’umanità. Ma all’interno della dimora ci sono dei conflitti: le ragazze stanno crescendo, si modificano gli equilibri, e quando un giorno il padre non torna, Stella decide di uscire per cercare dei viveri.
Il racconto dell’Apocalisse
All’interno del panorama nazionale, Buio rappresenta una piacevole novità. Si tratta di un film che non teme il confronto con il genere, ma anzi lo utilizza come pretesto per raccontare storie e tematiche universali. Nel suo svolgimento iniziale, la regista costruisce, assieme al suo scenografo, l’interno di una casa che diventa il solo luogo sicuro da un mondo colpito da una non meglio definita minaccia. Tra l’oscurità e le ampi e disordinate stanze, si svolge quella che tre ragazze si sforzano di considerare un’adolescenza, e infanzia, più spensierata possibile.
Il mondo esterno è un tabù, il cui unico ritratto possibile sembra quello narrato dal padre ogni volta che torna dalle sue pericolose escursioni in cerca di cibo. Nella presentazione del suo contesto, dunque, quella di Buio risulta essere una realtà inquietante poiché molto simile a quella vissuta oggi a livello globale. Allo stesso tempo, il film svela più di una connessione con l’apprezzato Light of My Life, di Casey Affleck. Anche nel lungometraggio dell’attore americano si narra di un padre e della sua giovane figlia da proteggere, e anche in quel caso al centro di tutto vi era la condizione femminile.
Questo per tornare a quanto detto inizialmente. Il film della Rossi utilizza il thriller e il contesto apocalittico come metafora per raccontare quella che è a tutti gli effetti una storia di crescita e formazione. La protagonista Stella imparerà, nel momento in cui si trova a dover uscire dalla casa, a confrontarti con un mondo totalmente nuovo. Nella seconda parte del lungometraggio, dedicata infatti a tale scoperta, si forma sempre di più il sospetto che quanto raccontato dal genitore non fosse la verità. Il mondo esterno è davvero minaccioso? O lo è soltanto agli occhi di chi ha tutto da perdere?
A coloro che resistono
Ciò che l’autrice semina e raccoglie nella seconda parte della sua opera, è l’attuale racconto di quelle ragazze o donne, costrette ad una vera e propria clausura da un potere più forte, qui incarnato dal padre. Figura controversa, l’uomo viene da subito presentato come personalità minacciosa, non del tutto sincera. Ed è proprio egli il principale ostacolo nella crescita delle giovani protagoniste. Via via che la narrazione prosegue, si svelano misteri e traumi, e il vero significato del contesto post-apocalittico rivela le sue chiavi di lettura.
Se nel film di Affleck si parlava di protezione del padre nei confronti della figlia, in Buio il paradigma è invece rovesciato, portando le figlie a proteggersi dal padre. Un percorso che la regista costruisce lentamente, a volte forse troppo, per arrivare a tessere un racconto di speranza nei riguardi di quelle donne che non si sottomettono ai soprusi, dedicato a coloro che resistono, come riporta la dedica finale. Con un’ottima cura del sonoro, nonché dell’uso dei colori, grazie ai quali è possibile descrivere il mood di personaggi e situazioni senza l’utilizzo di parole, l’autrice confeziona un’opera che dimostra il potenziale del genere, specialmente se applicato a racconti strettamente legati alla realtà.
Buio non è privo di tempi morti, conseguenza di una sceneggiatura che avrebbe probabilmente necessitato di una maggior cura della struttura, ma grazie alla sua messa in scena riesce a distinguersi e trovare una propria voce. Un film, questo, che nessuno sembrava voler produrre, ma dimostra invece cosa si potrebbe ottenere con un po’ di coraggio in più nella sperimentazione di linguaggi e tematiche diverse dalla norma.