Black Phone recensione: un horror che sa di thriller

La Blumhouse Productions è ormai entrata saldamente nel pantheon degli studios che hanno fatto la storia del cinema horror. L’uomo invisibile, Noi, Split, Get Out sono solamente alcuni dei giganti che l’azienda ha commercializzato negli ultimi anni, tuttavia basterebbero questi a collegare il marchio al concetto stesso di “pelle d’oca”. Ecco dunque che i cinefili di tutto il mondo hanno gioito ai tempi dell’annuncio di Black Phone, lungometraggio per cui la Blumhouse ha scomodato il regista Scott Derrickson, già responsabile di pellicole quali Doctor Strange e Sinister. Le aspettative hanno toccato livelli massimi e, ora che l’opera ha finalmente raggiunto le sale cinematografiche, fatichiamo a dirci veramente soddisfatti. Tale delusione è tuttavia generata da motivi che potreste non aspettarvi.

L’anima di Black Phone è più thriller che horror

Affrontiamo immediatamente il proverbiale elefante nella stanza: contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, l’ultima fatica di Derrickson non è un vero e proprio horror. Non nel senso classico, perlomeno. Certo, al suo interno non mancano elementi di orrore e diversi jump scare piuttosto superflui, tuttavia Black Phone si pone a cavallo tra l’esplorare una vicenda investigativa e il dipingere una pellicola generazionale, con il grottesco che fa più che altro da cornice ai veri contenuti del film.

Ambientato nei sobborghi statunitensi degli anni Settanta, il prodotto filmico esplora le vicende di Finney Shaw (Mason Thames), giovane bravo sia nello sport che nello studio, ma la cui vita è però incupita dai ripetuti soprusi subiti dai bulli scolastici, nonché dalla disavventura di essere figlio di un alcolista dalle tendenze violente. Quella di Finney non è però una storia tragica, tutt’altro. La narrazione cinematografica finisce con il suggerire che le amenità che lo affliggono facciano parte della vita dell’epoca, inoltre nella sua vita non mancano anche diversi elementi luminosi, a partire dalla sua adorabile sorellina Gwen (Madeleine McGraw).

La relativa quiete delle mondanità provinciale viene però spazzata via quando il ragazzo viene catturato da un serial killer semplicemente noto come Il Rapitore (Ethan Hawke), un losco individuo mascherato che decide di rinchiude Finney in uno spoglio scantinato. Senza comprendere con esattezza quanto stia accadendo e senza troppe speranze di fuga, il giovane si sta preparando ad accogliere passivamente la morte quando gli spiriti delle vittime passate dell’assassino entrano in contatto con lui proprio attraverso il titolare “telefono nero”, mentre la piccola Gwen cerca di venire in soccorso del fratello attingendo ad alcuni suoi poteri sovrannaturali.

Un generazionale in agguato nell’oscurità

Tratto da un omonimo racconto di Joe Hill, figlio di Stephen King, Black Phone ricorda per molti, moltissimi versi il libro/film Amabili resti, ma aggiungendo all’equazione narrativa una spolverata aggiuntiva di horror viscerale. In ambo i casi abbiamo infatti un rapitore pedofilo, un’investigazione imperniata su di una giovane sensitiva e, soprattutto, una trama “coming of age” che racconta il difficile passaggio tra l’adolescenza e la vita adulta. Tutto del lungometraggio racconta di quella complessa fascia di crescita in cui un bambino deve affrontare le brutture del mondo per superare finalmente il suo stadio puerile. O, se vogliamo assecondare la lettura squisitamente statunitense proposta dagli autori, per ottenere l’“indipendenza” dall’assistenza altrui.

Ecco dunque il più grosso limite della pellicola: la sua propensione americanocentrica. Più che raccontare una vicenda specifica, Derrickson sembra voler ricreare la sua visione dell’adolescenza dei bambini cresciuti negli anni Settanta, citando con encomiabile trasparenza i problemi e le complessità che all’epoca risultavano all’ordine del giorno. Il regista mira però a ricercare un certo grado di complicità nello spettatore, quasi volesse richiamare alla memoria un senso agrodolce di remota nostalgia. Inutile dire che gli anni Settanta italiani fossero però estremamente diversi da quelli statunitensi, cosa che a sua volta rischia di ledere quel filo rosso di empatia profonda evocato con affetto dal regista.

Una simile lettura è rinforzata dal fatto che il “world building” rappresenta una fetta sostanziosa dell’opera nonostante questo non abbia un ruolo essenziale all’interno dell’intreccio. Gli elementi presentati dalla trama non avrebbero infatti assoluta necessità di attingere a costumi passati, eppure gli autori hanno consapevolmente scelto di puntare sugli anni Settanta, ovvero di appoggiarsi al decennio che li ha visti bambini. Il mondo disegnato da regista e scrittore non è però in grado di connettersi in maniera coerente con gli avvenimenti impressi su pellicola, quindi buona parte dello svolgimento viene esplorata esclusivamente tramite esposizioni verbali concesse per cortesia di bambini morti. Niente nel film ci da a intendere le motivazioni del Rapitore, né ne conosciamo le motivazioni, al massimo abbiamo chiare le regole del suo tetro “gioco”, ma solo perché queste ci vengono annunciate con fare didascalico dai fantasmi. Non ci resta che fidarci di loro.

Però l’intrattenimento è di buona qualità

Nonostante le osservazioni sopra riportate, mentiremmo nel sostenere che Black Phone non sia d’intrattenimento. Nonostante la giovane età, Mason Thames e Madeleine McGraw si dimostrano attori capaci, mai stucchevoli o forzati, e rappresentano un virtuoso contraltare allo stereotipo per cui i “child actors” debbano irrimediabilmente essere scadenti e frustranti. Allo stesso tempo, Ethan Hawke si riconferma un calibro forte di Hollywood, se non altro perché è stato in grado di dare vita a un personaggio che risulta perlopiù nascosto da una spessa maschera. Come potrebbe testimoniare Hugo Weaving dopo essersi dedicato a V per Vendetta, recitare decentemente senza poter sfruttare la mimica facciale è un’impresa notoriamente ardua, ma Hawke ha fatto dignitosamente la sua parte.

La regia di Derrickson è, come sempre, competente e solida, priva però di grandi fronzoli autoriali. Ottime le riprese di dettagli e primissimi piani, meno entusiasmante tutto il resto. Degno di menzione è dunque il compositore Mark Korven, il quale, temprato da un notevole pedigree, è riuscito a creare una colonna sonora che risulta accattivante e pregna di tensione. Volendo muovere una lamentela si può invece guardare all’esterno e puntare il dito sugli addetti marketing di Blumhouse: per rendere accattivante il trailer di presentazione della pellicola, questi lo hanno riempito fino all’orlo di scene che gridano allo spoiler. Se volete godervi al meglio l’esperienza, state ben lontani dagli spot.

Black Phone compie un azzardo stilistico che è potenzialmente pericoloso, ovvero si affida a elementi emotivi esterni alla pellicola per creare una connessione sottocutanea tra spettatori e protagonisti. Quando il legame scatta, il lungometraggio riesce a manipolare l’esperienza delle persone per creare in loro un senso di orrore estremamente intimo e insidioso, tuttavia in assenza di questo riscontro immediato l’esperienza filmica cala drasticamente di intensità. Noi abbiamo visionato la pellicola con piacere, tuttavia ci rattrista ammettere che non sia scattata nessuna scintilla.

VOTO: 6.6