Uno degli elementi chiave di un buon horror è l’ignoto. In generale è più facile temere una suggestione, un’incognita, piuttosto che un qualche tipo di male che, per quanto orrendo, è in qualche modo razionalizzabile. Il team di sviluppo Brass Token dev’essere ben consapevole di questo noto presupposto, visto che ha deciso di debuttare sul mercato videoludico con The Chant, un action dai toni cupi la cui trama si dipana tra divinità arcane e bad trip lisergici. Un simile incipit non può che fomentare l’entusiasmo dei fan del genere, eppure, controller alla mano, possiamo dire che i programmatori siano riusciti a sovvertire le aspettative. E non necessariamente nella direzione desiderata.
The Chant inneggia a un noto che è sempre apprezzato
Non si può certo affermare che The Chant si stagli sulla concorrenza per originalità, i suoi contenuti inglobano al loro interno una miriade di topos della cinematografia di categoria. Non tutte le opere devono sentirsi però costrette a dimostrarsi visionarie, sperimentali e innovative, ogni tanto ripercorrere una strada già battuta è sufficiente, basta che questa sia lastricata con la dovuta cura. In tal senso, Brass Token dimostra un’abilità curatoriale fenomenale e predispone uno stralcio narrativo estremamente semplice che sembra però esistere a cavallo tra il Mandy di Panos Cosmatos e il Midsommar di Ari Aster: Jess, una giovane traumatizzata dalla morte della sorella minore, decide di cercare di metabolizzare il lutto e passa un weekend su un’isola gestita da un guru che guida il proprio gregge in meditazioni rinforzate da agenti allucinogeni. Semplice, essenziale, efficace.
L’intuizione è lineare, ma funziona e viene sostenuta da un cast di personaggi estremamente contenuto e riconoscibile, nonché da una location forte di regole ben definite. Non siamo lontani dall’archetipo di “casa nel bosco”, il che non stona affatto con il tono che gli sviluppatori hanno voluto impostare. Nell’insieme, gli ingredienti a disposizione si condensano in quella che sarebbe la formula perfetta per sviluppare un videogame profondamente narrativo e cinematografico – affine a quelli sfornati da Supermassive Games –, tuttavia The Chant ha deciso di scommettere su di un’impalcatura action che, per come è stata sviluppata, cozza in maniera evidente con l’atmosfera lenta e grottesca suggerita invece dal contesto.
Tre valori di poco conto
Mosso dal desiderio di voler creare un’esperienza unica, lo staff di Brass Token si è assicurato di suddividere le dinamiche del gameplay su tre valori essenziali: corpo, spirito e mente. Quella del corpo è la statistica più didascalica, rappresenta la resistenza ai danni, tuttavia spirito e mente introducono agli utenti alcuni elementi più intriganti: lo spirito viene adoperato per attivare delle abilità mistiche speciali e per ottenere serenità psicologica, ovvero la mente, così da evitare eventuali crisi di panico, le quali impediscono di fatto ogni azione che non sia quella di fuggire dalle minacce. Considerando che ogni orrore e ogni scontro mina la salute mentale di Jess, il tutto richiama alla mente Eternal Darkness, ma laddove un simile espediente veniva squisitamente valorizzato, in The Chant si trova frustrato da infelici meccaniche di gioco.
Visto che il rituale terapeutico di Jess deraglia mostruosamente, l’isola finisce con l’essere infestata da mostri e da condotti di “gloom”, i quali, quando attraversati, dissipano ogni forma di senno e di logica. La conseguenza è che i giocatori sono stimolati a fruire il titolo con somma frettolosità, praticamente vivendo una speedrun, cosa che a sua volta va a ledere ogni speranza di potersi immergere nel mondo messo a disposizione dai programmatori. Impossibilitati a godere uno storytelling ambientale, ai giocatori avidi di trama non resta che appoggiarsi alle occasionali cinematiche e alla miriade di documenti di testo, ambo dei quali non riescono però a dimostrarsi particolarmente intriganti o coinvolgenti, ancor più perché il gioco di ambiguità tra percezione allucinatoria e realtà viene abbandonato già nelle prime fasi dell’intreccio.
A livello di giocabilità, l’approccio “speedrunner” tende a rendere del tutto superflua la scelta di suddividere la salute della protagonista in tre differenti bacini. Questi si trasformano di fatto nei più tradizionali punti magia/salute con l’aggiunta di un fattore mentale che assume suo malgrado la funzione di un inesorabile conto alla rovescia, il quale rende indirettamente più logorante ogni sessione di combattimento.
Non meditazione, ma botte da orbi
The Chant è difficilmente inquadrabile nella dimensione del survival horror, se non altro perché il titolo impone tutta una serie di scontri obbligatori da risolvere attraverso l’uso di feticci new-age craftabili che vengono adoperati come banali armi contundenti. Difficile trovarsi peraltro privi di difese, il gioco mette a disposizione molti degli ingredienti necessari a costruire i propri strumenti di “purificazione”, inoltre è possibile potenziarsi usando un rudimentale sistema ruolistico. Virtualmente, l’idea di tener testa a creature orrende con fascette di salvia bianca è al contempo curiosa, inquietante e potenzialmente esilarante, tuttavia nel contesto l’intuizione non viene valorizzata a dovere sicché le dinamiche di impiego degli strumenti offensivi non sono dissimili da quelle che si applicherebbero a una banale mazza da baseball.
A intaccare ulteriormente l’esperienza giunge dunque il fatto che i combattimenti non rappresentino una sfida, ma un mero ostacolo. Quasi tutti i nemici vengono brevemente storditi dagli attacchi pesanti ed è quindi facile costringerli in una posizione di svantaggio da cui possono uscire solamente adoperando attacchi speciali estremamente telegrafati. Una volta compreso il format del sistema, è difficile cadere vittima dei propri avversari a meno che non ci si distragga del tutto da quanto succede sullo schermo. Le battaglie sono raramente memorabili, quasi mai complesse, quindi non c’è soddisfazione, non c’è scarica di dopamina, nel superare un ostacolo.
La luce nelle tenebre
Il presupposto allucinatorio impostato da The Chant si apre a derive immaginifiche che valicano il confine della verosimiglianza per sfociare in universi introspettivi e potenzialmente fuori dal mondo. Gli sviluppatori non hanno tuttavia sondato troppo a fondo le opportunità a loro disposizione e l’impostazione lisergica viene liquidata quasi esclusivamente con un’imposizione nell’ambiente di luci e colori che risultano mostruosamente alieni. La giustapposizione tra toni vivaci e orrore ha in passato regalato esperienze d’intrattenimento trionfalmente surreali, tuttavia il team di Brass Token ha evitato di concentrare la sua ricerca stilistica su questa peculiare dimensione, quindi il tutto si esaurisce in un esercizio stilistico utile al fine di indicare le zone non accessibili della mappa di gioco, ma artisticamente sterile.
L’esperienza tecnica fluisce senza intoppi, cosa decisamente importante visto che buona parte dell’avventura di Jess è fatta di corse e lotte dinamiche, tuttavia per garantire la stabilità necessaria a preservare il frame rate il titolo si è però dovuto imporre grandi sacrifici sul frangente della qualità grafica. La protagonista, le sue animazioni e i mostri da fronteggiare risultano adeguatamente curati, ma molte delle zone esplorate sono caratterizzate da textures primitive e da strutture poligonali alquanto essenziali. L’impressione è che The Chant sia nato con l’idea di sfruttare con arguzia un contrasto dinamico tra luci e tenebre, ma che per questioni di game design sia stato deciso tardivamente di aumentare la luminosità dell’intera esperienza.
The Chant e il maestro venuto dal passato
Per molti aspetti, il gioco messo in campo da Brass Token richiama alla memoria uno dei titoli horror più atipici della storia videoludica: Alan Wake. L’insolita creatura sviluppata da Remedy Entertainment è stata gravata da una genesi tormentata e da un sistema di gioco che non sempre era perfetto, tuttavia il titolo vanta ancora oggi una presentazione e un world building d’eccellenza. I riferimenti ad autori terzi erano ovvi – Stephen King e David Lynch su tutti –, ma venivano rimaneggiati in un’esperienza interattiva fresca e godibile. Di contro, The Chant mostra evidenti problemi registici.
Un esempio: al fine di fornire un’esperienza profonda, gli sviluppatori hanno scomodato attori competenti per interpretare i protagonisti della vicenda, li hanno sottoposti a un sistema di facial motion capture più che valido, quindi hanno svilito la loro performance innestando i volti su modelli umani che risultano in-game rigidamente animati. Il contrasto tra l’elemento di pregio e il tratto difettoso è tanto alienante da risultare aggressivo, più traumatico di quanto non sarebbe stato il vivere un’esperienza interamente low budget. The Chant contiene idee e valore, ma queste vengono smussate da una visione artistica confusa e spaesata. La cosa frustrante è che siamo pronti a riconoscere il potenziale palpabile dimostrato da Brass Token, tuttavia questo loro gioco di debutto evidenzia anche una certa incapacità nell’integrare i talenti di tutti i tecnici in maniera che questi risultino armoniosi e complementari. Guarderemo con interesse le evoluzioni dello studio, i loro primi passi ci suggeriscono che hanno qualcosa da dire, tuttavia devono necessariamente affinare la “dialettica” con cui esprimersi.
PIATTAFORME: PC, Xbox Series X|S, PlayStation 5
SVILUPPATORE: Brass Token
PUBLISHER: Prime Matter, Plaion
Per essere un prodotto di debutto, The Chant si dimostra solido e promettente, tuttavia la sua stessa natura tende a evidenziare l’immaturità di un team di sviluppatori che sta imparando a coesistere sotto un’univoca direzione artistica. Nonostante abbia tutte le carte in regola per dimostrarsi un horror degno di nota, il titolo manca infatti di focus, si spezza tra la creazione di un’atmosfera tesa e la catarsi action, quindi non riesce a sviluppare il pieno potenziale dei suoi sporadici tratti virtuosi. Tenendo conto delle molte alternative a disposizione degli amanti dei giochi dell’orrore, The Chant fatica a stagliarsi dalla massa, disperdendosi in un’allucinazione perversa che stenta a lasciare un segno imperituro.