Sono stato indeciso fino all’ultimo istante sul tipo di atteggiamento da tenere al momento di scrivere una recensione come quella che state leggendo in questo istante. Hohokum non è un videogioco nel senso stretto del termine; o, al contrario, è la cosa che più rischia di cogliere l’essenza della parola. Niente assolutismi, ma solo un elastico che tira al massimo i sensi o li ammolla, secondo la predisposizione di ciascuno nell’accettare ciò che Hohokum ha da proporre.
Se questa introduzione vi sembra un po’ criptica, sappiate che è colpa del gioco, a sua volta criprico come pochi altri, nonostante una semplicità di fondo quasi disarmante. In Hohokum controlliamo una sorta di lungo spermatozoo, la cui coda cambia di colore secondo la direzione. Oltre a decidere i movimenti, possiamo anche regolare la velocità con cui avviene l’esplorazione, purtroppo non sfruttando l’analogicità della levetta sinistra, ma premendo “X” oppure “O”, rispettivamente per correre a perdifiato o frenare al massimo l’entusiasmo. Usando Quadrato, infine, l’occhio contenuto nella testa dello spermatozoo si chiude. L’utilità? Nulla, ma è divertente farlo, di tanto in tanto.
Tutto qui? Beh… sì. Hohokum, alla fine, è una sorta di esperienza sensoriale, quasi onirica, a tratti perfino sinestetica. Ogni livello, liberamente esplorabile senza grosse limitazioni, propone delle piccole sfide, che tuttavia non vengono mai esposte in modo chiaro. Si gironzola qua e là e si provano a fare cose per verificare le conseguenze delle nostre azioni, a prescindere dal fatto che si trasporti sulla coda un personaggio da una parte all’altra dello schermo, o si agisca sul fondale passando in prossimità di punti sensibili. Dopo un po’ si capisce che esistono degli “occhi” che devono essere aperti e collezionati: di primo acchito questo sembra l’unico scopo esplicito di Hohokum, ma con l’andare delle ore diventa più un pretesto per spingersi in là nell’esplorazione, anziché assurgere a Stella Polare del nostro agire.

Giocare a Hohokum, alla fine, è solo questione di voglia. Voglia di farsi catturare dall’onda emotiva, che leviga il giocatore come fa l’acqua del mare coi ciottoli a riva. Voglia di provare qualcosa di un po’ diverso e differente dai canoni cui siamo legati ormai dai generazioni di schemi consolidati. Voglia di mettersi in testa un paio di cuffie e lasciarsi cullare da una colonna sonora ispirata e mai invasiva, che passeggia pericolosamente sul filo sottile che separa l’elettronica dalla new age. Voglia di lasciare che gli occhi godano delle pennellate d’autore di un fine artista come Richard Hogg, dal tratto semplice e al contempo deciso e impudente. Certo, bisogna essere pienamente coscienti di ciò che si va incontro, e non è una cosa scontata.
Hohokum, peraltro, si porta a casa in cambio di 12,99 euro, non una cifra eccessiva, se si considera che l’offerta comprende il cross-buy tra PS Vita, PS3 e PS4, oltre al cross-save via cloud. Personalmente, ho tratto gran giovamento proprio dalla versione portatile: abbinare allo schermo OLED un paio di cuffie avvolgenti e capaci di isolare debitamente dal mondo esterno rappresenta la soluzione migliore per godere appieno delle sferzate sensoriali di Hohokum, ma anche sulle console da salotto (a patto di avere la console attaccata a un sistema audio “degno”) si gioca con serenità e senza troppi patimenti.
In definitiva, Hohokum è un più una forma di art-game, che un videogioco nell’accezione che siamo soliti attribuire al vocabolo. La totale assenza di obiettivi visibili e di indicazioni sul da farsi lascia perplessi, c’è poco da fare. Almeno all’inizio è necessario fare uno sforzo di pervicacia per non lasciarsi abbandonare dallo sconforto e dalla dispersione. Il videogiocatore coriaceo e aperto a lasciarsi trasportare dalla corrente riuscirà a trovare in fretta i giusti stimoli; tutti gli altri, invece, rivolgano pure il loro sguardo altrove.