Serial killer: secondo il Dizionario de La Repubblica, un“pluriomicida che agisce con delitti in serie, secondo modalità che si ripetono nella scelta delle vittime e nella tecnica di esecuzione dei suoi crimini”. Da quello che si deduce dalla definizione, siamo in presenza di alcuni individui orribili e raccapriccianti, che hanno però dietro alle spalle una filosofia o un modus operandi (letteralmente modo di lavorare) ben preciso, che li caratterizza e li rende unici nel loro genere. Personaggi di questo tipo non sono criminali o delinquenti qualunque, ma, perdonatemi il paragone, degli “artisti dell’omicidio“, capaci di spettacolarizzare e dare un significato profondo ai loro atti, ritenuti sacri e catartici in alcuni casi. Icone controverse, volti inquietanti e affascinanti allo stesso tempo, che fin dalla loro prima apparizione sui rotocalchi, sono diventati materiale per l’intrattenimento perfetto, dei divi profani capaci di attirare pubblico in maniera esagerata, nonostante si stia parlando di atrocità e brutalità senza precedenti. La domanda che sorge spontanea è: come mai gli assassini seriali sono diventati delle vere e proprie star del mondo dell’intrattenimento e continuano ancora oggi ad ammaliare le menti delle persone? Proverò a rispondere a questo quesito analizzando per prima cosa alcune opere, dove i serial killer vengono presentati in diverse modalità, per poi andare a comprendere le leve che spingono l’uditorio verso questi macabri rappresentanti della violenza.
Il noto Charles Manson, qui interpretato da Damon Herriman in Mindhunter.
Serial killer: l’approccio scientifico
Parlare di serial killer non è facile e spesso, a dare una mano al mondo televisivo, letterario e seriale intervengono i fatti così come sono accaduti. È questo il caso di prodotti come Mindhunter (qui trovate la recensione della seconda stagione), dove il fulcro principale della narrazione sono le interviste a svariati uccisori seriali, tutti realmente esistiti e descritti nel libro omonimo di John E. Douglas e Mark Olshaker, che funge da ispirazione per lo show. Lo stesso metodo è stato usato, ad esempio, anche nel lungometraggio Zodiac (anch’esso la trasposizione di alcuni scritti), diretto da David Fincher che è anche il produttore della serie sopracitata. L’opera descrive nel dettaglio la caccia al noto Killer dello Zodiaco, che sconvolse la Carolina settentrionale a fine anni ’60, commettendo omicidi e giocando direttamente con la polizia mediante misteriosi messaggi cifrati. Bisogna premettere che la modalità in questione, che chiameremo “scientifica”, non è priva di invenzioni da parte di sceneggiatori, ma il soggetto mostrato è prevalentemente realistico, con un pizzico di creatività, che rende alcuni passaggi decisamente più fruibili. Questo approccio, se da una parte è maggiormente semplice da attuare, ha una problematica enorme alle spalle: la grossa responsabilità nel raffigurare eventi realistici direttamente, i quali, se non hanno elementi ben dosati per evitare troppa empatia con il pubblico, rischiano di coinvolgere animatamente i fruitori, andando oltre la finzione scenica. E questo potrebbe essere spiacevole, visto che delitti del genere difficilmente riusciamo a comprenderli appieno. Se l’impianto strutturale è realizzato accuratamente avremo un pubblico molto coinvolto e catturato, che avrà però bene in mente la parete che separa la fiction dal mondo come lo conosciamo.
Robert Downey Jr. e Jake Gyllenhaal, nei panni di Paul Avery e Robert Graysmith in Zodiac.
Serial Killer: l’approccio romantico
Passiamo ora a descrivere l’altra metodologia che ben si esplica mediante due serial killer cinematografici di notevole spessore: Hannibal Lecter e John Doe, rispettivamente apparsi ne Il Silenzio degli Innocenti (la sua apparizione più famosa, ma visto anche in altri film successivi) e Seven. Il Doctor Lecter, interpretato nelle pellicole dal magistrale Anthony Hopkins, è forse tra i villain più famosi della Settima Arte, complice il suo incredibile fascino. La figura, creata ad hoc dal romanziere Thomas Harris, ha avuto così tanta fortuna da comparire non solo in lungometraggi, ma anche in una serie di Bryan Fuller, dove Madds Mikkelsen figura nel ruolo dell’assassino. Lo psicologo antropofago è totalmente frutto dell’invenzione umana, con tratti che vengono ricollegati sia ad Albert Fish che ad un medico conosciuto da Harris in persona, tale Salazar. Doe, che ha il volto dell’istrionico Kevin Spacey, invece, è al centro delle vicende del lungometraggio di Fincher (un appassionato di psicopatici a quanto pare), dove due detective, Somerset (Morgan Freeman) e Mills (Brad Pitt) sono alla sua ricerca. La sua particolarità? Uccidere le sue vittime in maniera rituale, richiamando i vizi (sette per l’appunto) che li affliggevano. Nella visione romantica, come si può dedurre da entrambe le figure presentate, il serial killer è totalmente artefatto, partorito interamente dalla mente degli artisti. Se ciò appare complesso nel momento di creazione, avrà più pro nella gestione del ponte di collegamento con gli spettatori: in presenza di assassini inventati è più facile comprendere la simulazione in corso, evitando di immergersi troppo nella loro psiche e accettando più facilmente i loro atti, proprio perché sono solo costrutti di scrittori e sceneggiatori. Fermo restando però, che con un livello di scrittura alto, si ha comunque un’empatia di un certo peso.
Hannibal Lecter, uno dei più famosi omicidi seriali del grande schermo.
La violenza come insolita attrazione
È arrivato il momento, dopo aver descritto i due approcci, di andare un po’ più nelle profondità del problema principale, cercando di sviscerare le motivazioni che portano le persone ad essere così insolitamente attirate da queste figure. Penso che le cause siano principalmente due e vanno evidenziate sia nella costruzione della scena, che negli istinti più profondi degli esseri umani. Alcune volte si pensano e si modellano serial killer letterari, ma anche cinematografici, che hanno un potere talmente forte sulla gente, da essere un’attrattiva notevole. Questo accade perché le influenze della realtà in questi personaggi sono completamente nulle o solo parziali: anche negli assassini seriali realistici come quelli di Mindhunter, la finzione, come già ho evidenziato, gioca un ruolo importante e meno male che succede. Il tutto fa credere al pubblico di essersi innamorato di uno psicopatico, quando in realtà è solamente una predilezione per un personaggio ben riuscito. Non è sempre vero questo, visto che alcuni serial killer, come lo stesso Charles Manson o Richard Speck, riuscivano anche nella realtà ad essere delle icone pop notevoli, ma in linea di massima le due cose sono distinte. L’atavica passione per l’orrore è tutt’altra questione: gli uomini sono di natura incuriositi da tutto ciò che evoca la morte o la violenza, e bastano semplici esempi per farvelo capire. Pensate ai fiumi di gente che accorrono agli incidenti, o al religioso pellegrinaggio di fronte a scene del crimine o all’ossessione per la cronaca nera. Gli omicidi sequenziali, quindi, incarnano tutti gli elementi più tabù dell’umanità, che affascinano, ma al tempo stesso ripugnano e grazie a ciò riescono ad essere magnetici in ogni loro messa in scena.
Uno degli ultime sequenze di Seven di David Fincher
Ed ecco che diventano delle figure dotate di un insolito fascino e lanciano l’amo agli spettatori maggiormente curiosi e desiderosi di approfondire determinate tematiche. Il passaggio da nemici dell’umanità a star vere e proprie avviene quindi per cause artificiali e naturali, che consentono di trasformare i serial killer in attrazioni macabre. Come in un pallido e sanguinolento circo dell’orrore, gli assassini seriali mostrano agli spettatori la loro mente (reale o fittizia), mettendola a nudo e incuriosendo gli animi più volenterosi di esplorare le parti più oscure del nostro spirito.