Blonde Recensione: Norma Jeane contro Marylin Monroe

“Goodbye, Norma Jeane”, recita l’attacco del brano Candle in the wind di Elton John, che ben racconta nelle sue strofe la vita breve e intensa di una delle icone intramontabili e più chiacchierate del Novecento. La storia di una bambina, ragazza, donna che ha attraversato le fasi della sua esistenza alla velocità delle montagne russe, con groppi in gola e vuoti allo stomaco consequenziali. Ma anche delle gioie e momenti di indiscutibile umore alle stelle. La regia di Andrew Dominik riporta sugli schermi di Netflix (e solo su quelli) la vita di Marilyn Monroe in un film già presentato in concorso a Venezia 79, ma non abbiamo di fronte a noi oltre due ore e quaranta di un classico biopic. Blonde, basato sull’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates, racconta la vita della bionda per eccellenza di Hollywood ma in maniera romanzata, con aggiunte narrative che dividono l’opinione critica, andando a scavare la psiche e gli angoli più bui e nefasti della vita tutta lustrini e abiti bianchi svolazzanti di una delle donne considerate tra le più belle del pianeta. Un modello da seguire, esteticamente. Ma la sua vita privata e le traversie della sua anima sono state ugualmente rappresentative e luccicanti? La storia racconta il contrario, ma qui il dolore e i coni d’ombra di una stella luminosa di Hollywood vengono ampiamente sviscerati, portandoci anche a riflettere in alcuni momenti del lungometraggio. Scopriamo tutto questo, senza troppi spoiler, nella recensione dedicata al film che vede protagonista una encomiabile Ana De Armas, affiancata da Bobby Cannavale, Xavier Samuel e Adrien Brody, tra i principali attori.

Blonde, come nasce una stella (cadente)

“Blonde”, “bionda”. Andrew Dominik parte da un tratto specifico dell’estetica di Marilyn Monroe, sin dal titolo. Gli stereotipi sulle bionde si sprecano, e cavalcano bene o male tutti la stessa lunghezza d’onda: belle, sensuali, svampite, frivole, non spiccano per intelletto. La bionda in questo film però è ben lontana, almeno all’inizio, dal riflettere questi bias. Norma Jeane Mortenson Baker probabilmente non è stata voluta non solo dal padre, mai conosciuto, ma nemmeno dalla madre, la quale soffre di importanti disturbi mentali tali da condurla a mettere in pericolo la vita stessa della figlia. Un aborto mancato, come viene raccontato nel film, poiché la madre ha deciso di portare a termine la gravidanza nonostante la situazione avversa. Un tema, quest’ultimo della maternità, che tornerà spesso come doloroso refrain nella vita di Norma Jeane. Vorrei vedere l’inferno più da vicino, in anteprima”, è così che si esprime la madre di Norma Jeane mentre vorrebbe condurre la sua auto nel bel mezzo di un incendio, con a bordo la figlia, mettendo a repentaglio la sua vita anche quando tenta di annegarla nella vasca da bagno di casa. La sua instabilità mentale la porta a essere rinchiusa in ospedale, e questo fa sì che la bambina rimanga in affido a una coppia di vicini di casa benestanti. Ma per poco. Il passo dall’orfanotrofio ai primi successi come fotomodella e vincitrice di concorsi di bellezza è breve, e la vita reale (e più nascosta) di Norma Jeane lascia il passo a quella delle copertine di riviste patinate, giornali e flash di scatti fotografici. Un passaggio determinato anche dal cambio tra bianco e nero e immagini a colori, una scelta stilistica che però non ha alcuna logica ai fini narrativi, se non quella di creare confusione nello spettatore. Se infatti a primo impatto si potrebbe pensare a un legame tra forma e contenuto per mantenere il distacco tra le due dimensioni, entrambe unite però da un fattore comune: Norma Jeane, o Marylin che sia, non avrà mai alcuna vera possibilità di decidere in maniera indipendente come condurre la sua vita. La sua insicurezza, probabilmente dettata dai primi traumi infantili, la accompagna per la sua intensa, breve esistenza, condannandola però a vivere quasi tutti i momenti topici senza spensieratezza, ma con ansia e paura del fallimento. Stati d’animo, questi ultimi, che vengono spesso rappresentati con immagini dilatate, sfumate, nei momenti in cui Marylin sta perdendo se stessa e il controllo della situazione, tra amori difficili, ricambiati solo per brevi frangenti di tempo. 

“Quella cosa sullo schermo non sono io”

Lo vediamo dall’inizio alla fine del film: prima Norma Jeane, poi Marylin, sono vittime del destino, del fato, della disgrazia, o in qualunque altro modo si voglia chiamare la sfortuna che pedissequamente le perseguita e non smette di abbandonarle. Anche i momenti apparentemente felici vengono seguiti da momenti duri, difficili, connotati da violenza e abusi. Se non addirittura presentano un retrogusto amaro nel momento stesso in cui la giovane è spensierata. O almeno questo pare. Norma Jeane sa di essere vittima da sempre sia degli altri, sia di Marylin stessa, o meglio dell’immagine che il pubblico, e prima ancora il mondo del cinema, si è fatto di lei. Una sgualdrina, una facile e stupida; così la considerano, quando viene assunta nel cast dei suoi primi film solo perché era Marylin Monroe e non per altri talenti a lei addotti. Solo per il suo fisico invidiabile. “Sono solo una bionda“, così lei si racconta agli altri quando cercano di attribuirle meriti che, ormai, lei pensa di non meritare. Motivo per cui diventa sempre più succube dell’universo che la circonda, una piccola stella che viene ultimamente inghiottita dal buco nero dei disturbi psicologici di cui ha sempre sofferto e, soprattutto, dalla macchina cinematografica che l’ha macinata fino all’ultima fibra, quando comincia a rifiutare contratti e ha crisi di nervi sempre più frequenti sui set. Non si riconosce più, quando si vede sullo schermo di un cinema, ma ormai è troppo tardi. Norma Jeane ha cercato di scappare da Marylin Monroe, prima con il matrimonio consumatosi in violenza con Joe DiMaggio, poi e soprattutto quando incontra e sposa Arthur Miller, ma anche quest’ultima breve parentesi idilliaca finisce presto, aprendo un ultimo, delirante e doloroso capitolo della sua esistenza.

Il cerchio di luce è vostro

Norma Jeane non presenta alcun segno del tempo sul suo corpo, nel corso del film. Non che abbia avuto il tempo di invecchiare, ma di lei rimane sempre un’immagine esteticamente, e apparentemente, invariata, un’icona immortale. Al contrario, su di lei, e dentro di lei, gli stravolgimenti e le ferite sono innumerevoli. Nel corso del film si aprono e si chiudono diversi cerchi relazionali, che però si presentano tutti con lo stesso epilogo: la tragedia. Tutti gli uomini che ha amato, e che difficilmente l’hanno realmente ricambiata, sono stati soprannominati “Daddy”, nella speranza di raffigurarvi il padre che non ha mai conosciuto e che ha creduto fino alla fine di poterlo incontrare e conoscere. Le gravidanze finite prematuramente con un aborto, prima voluto per perseguire la fama, poi successo per incidente e per disgrazia, le hanno concesso di portare in grembo un bambino soprannominato “Baby”. Due soprannomi, due destini tragici. Nessun uomo è stato suo padre, nessun bambino è stato suo figlio. Un altro elemento ricorrente è il telefono, attraverso il quale riceve chiamate dai messaggi spesso difficili da digerire e da cui, a sua volta, annullerà contratti e ingaggi per film che non ritiene rappresentativi della sua persona. Infine l’assenza di una casa stabile, un luogo dove mettere radici. L’unica casa che la accoglierà sarà quella dove porrà fine ai suoi dolori, e l’unico simbolo di fedeltà sarà un cagnolino che le rimarrà accanto negli ultimi momenti di solitudine. Un ultimo, ulteriore cerchio sembra perseguitarla per tutta la vita, e anche dopo la morte: quello luminoso dei flash delle macchine fotografiche, artigli di un mostro chiamato stampa che l’ha divorata e e gettata una seconda volta anche nelle fauci del pubblico ludibrio, con la sua produzione di copertine e strilli inappropriati per lei. “Even when you died, the press still hounded you, all the papers had to say was that Marilyn was found in the nude”.

Blonde è la storia difficile, a tratti confusa e con qualche salto temporale, di una ragazza, e poi donna, alla ricerca della felicità, che ha trovato invece solo una vita infertile, a tutto tondo. Ne emerge un personaggio naif, una sempiterna ragazzina costantemente affamata di amore e di affetto, che deve però fare i conti con un’aura sbagliata che la circonda e che la conduce a un’ascesa pericolosa e troppo veloce. Oltre a puntare verso direzioni fortemente sbagliate. “Hollywood created a superstar, and pain was the price you paid” è il messaggio che trova una perfetta trasposizione sullo schermo, dove la regia di Andrew Dominik riporta una tragedia ben espressa sullo schermo, intrisa delle paure, della solitudine e della confusione crescente nella sua testa e intorno a lei. Mancano forse dei tratti salienti a livello biografico: la scelta dello pseudonimo, come sono avvenuti determinati incontri, così come avrebbe avuto più senso giustificare la scelta stilistica di filtrare in bianco e nero alcuni momenti del film e altri invece lasciati in originale, invece che lasciare al caso e alla conseguente creazione di confusione. A parte questi punti deboli del film, risulta in definitiva un film intenso nella sua totalità, dove il dramma vero e senza eccessi recitativi ci regala una visione empatica di una donna, non di una star o di un mero “pezzo di carne”.

Voto: 8