Mesi fa, si parla di quando Foamstars venne annunciato durante il PlayStation Showcase di maggio 2023, scrissi un’anteprima sul gioco che definirei “cinica e scocciata”. Anche solo uno dei sottotitoli – nominato “Sono stanco Cloud” – faceva trasparire un certo disincanto verso Square Enix, software house la cui attuale gestione oscilla tra prospettive future interessanti per quanto riguarda i suoi prossimi progetti single player, e un costante attaccamento a modelli di business, tecnologie e dinamiche che non fanno parte della sua storia. Sensazione che dopo le altre anteprime non ha fatto altro che crescere, fino al giorno dell’uscita all’interno del catalogo PlayStation Plus Essential di febbraio. Ma poco importa, penserete. Se il gioco vale la candela ed è bello da giocare, è tutto a posto no? Il problema con Foamstars però è che con molta probabilità prima di arrivare a “quel gioco divertente” ci vorrà un bel po’ di tempo.
Una festa senza fine
In controtendenza con la premessa iniziale di questa recensione, parliamo prima di tutto dell’elemento più riuscito di Foamstars: la presentazione estetica e sonora. La città di Bath Vegas si mostra come una metropoli vibrante di carisma e colori, tra luci al neon e strade brillanti, quasi glitterate che ricoprono tutto e danno al gioco un’estetica onirica. E per “dare a Cesare quel che è di Cesare”, qui si può dire che il team di Toylogic è riuscito a tirare fuori un risultato finale interessante, e che si sposa bene con le caratteristiche “cartoonesche” dell’attuale versione di Unreal Engine 4. Anche i vari personaggi del roster iniziale mostrano una certa “freschezza” e spensieratezza nei loro design, nonostante prendano sempre ispirazione dai classici stilemi da “textbook anime 101” della idol, del supereroe shonen, il barista esperto nella latte art e fautore delle “daddy issues” e chi più ne ha più ne metta.
Particolare sorpresa scoprire che la colonna sonora è stata composta da nientemeno che MONACA, il gruppo di produzione musicale fondato da Keiichi Okabe, artista che molti potrebbero conoscere per il suo contributo alla saga di Drakengard/Nier ma che per Foamstars è andato a ripescare un repertorio musicale molto più – se dovessi cercare un termine giusto – “Namcoso”. Un perfetto misto tra groove e jazz che non solo si sposa perfettamente con il setting da “festival eterno” che permea Bath Vegas, ma riporta in auge anche quel mood caratteristico dell’epoca PS1-PS2 presente all’interno di titoli arcade come Ridge Racer, Tekken 3/4/5 e Jumping Groove. Questo interessante mix di una direzione artistica tutto sommato buona e una colonna sonora frizzante e orecchiabile, rappresenta il meglio che Foamstars riesce a comunicare al giocatore. Ci tenevo a parlare fin da subito della parte estetica di questo titolo perché vorrei far capire come del lavoro e dell’effettivo impegno da parte del team per rendere il gioco quantomeno originale c’è stato. Il problema? Tutto il resto.
Un tripudio di colori… forse anche troppi
Fin dal primissimo trailer, il più grande dubbio di molti giocatori verso Foamstars era rappresentato dalla troppa somiglianza nelle premesse generali del gioco rispetto alla controparte Nintendara Splatoon 3. Tuttavia dopo aver speso un bel po’ di ore sia durante l’Open Beta Party che all’interno della release ufficiale, cerchiamo di metterlo subito in chiaro: Foamstars non è Splatoon, né nel suo game design né nelle sue dinamiche e loop. E se vogliamo essere ancora più sinceri, forse la copia spudorata di quest’ultimo avrebbe prodotto un risultato migliore, ma andiamo per gradi. Gran parte delle partite di Foamstars, che per una cosa o l’altra (ne parleremo) saranno sempre all’interno della modalità “Smash The Stars”, si svolgeranno in questo modo: due squadre di 4 giocatori si lanciano all’interno dell’arena, e dopo una prima fase in cui la schiuma viene utilizzata per creare un tracciato e ottenere un bonus in velocità tramite l’uso delle tavole da surf.
Una volta incrociate, le due squadre se le daranno di santa ragione come in un normale team deathmatch, con i giocatori che – a seconda del personaggio – coprono ruoli offensivi e difensivi alla ricerca dello spiraglio nel quale incalzare gli avversari e riempirli di schiuma fino a farli diventare delle enormi palle di sapone da spingere utilizzando la tavoletta per ottenere una “freddura” (chill) o salvare i propri alleati. Raggiunte le 7 freddure, un giocatore casuale all’interno del team diventerà uno “Star Player”, ottenendo un notevole boost alla propria resistenza, ma allo stesso tempo diventando l’ago della bilancia della partita. Freddare uno Star Player chiuderà di fatto la partita.
Ora, è possibile prendere parte a delle variazioni di questa formula come per esempio “l’Happy Bath Survival” in cui le squadre vengono divise a coppie in un’arena ancora più piccola e gli altri due giocatori forniscono supporto dall’alto; oppure il “Rubber Duck Party”, un costante tira e molla tra le due squadre molto simile nel funzionamento alla Modalità Scorta di Overwatch 2, con il payload rappresentato da una paperella di gomma gigante su cui ballare per ottenerne il controllo. Tutte modalità potenzialmente divertenti ma penalizzate da due fattori: la frequenza di rotazione in cui queste due alternative ruotano all’interno delle lobby online ogni 60 minuti e il gunplay stesso del gioco. Se da una parte i trailer ci avevano dato l’idea che Foamstars sarebbe stato un gioco frenetico e ad alto tasso di bolle, la realtà dei fatti è che gran parte del tempo si fa molta fatica anche solo a leggere bene l’azione di gioco. Tra personaggi in grado di sparare (con un feedback pad alla mano non proprio straordinario) diversi tipi di sapone, abilità speciali e ultimate come quella di Baristador che vanno a coprire grandi porzioni dell’arena, c’è sempre il rischio di incappare in simpatiche e fastidiosissime montagnette di schiuma. Molto forti nel difendersi contro gli attacchi nemici ma anche altrettanto efficienti nell’ostacolare gli attacchi dei nostri alleati.
Questo non solo porta il giocatore a dover “prevedere l’imprevedibile” ovvero il percorso alternativo migliore su cui fare il giro per raggiungere gli avversari, ma vista anche l’incredibile intensità dei saponi presenti nel gioco (e in netto contrasto con le arene notturne) si arriva anche a percepire un certo fastidio visivo durante le sessioni più prolungate. Forse l’utilizzo di colori meno accesi per una delle due squadre avrebbe attenuato quest’ultimo inconveniente. Inoltre, ricordate dell’obiettivo principale della modalità “Smash The Stars”? Ecco, ora prendete tutto quello che è stato detto fino ad ora e aggiungeteci anche l’impossibilità di raggiungere o individuare uno Star Player, che zitto zitto se ne resta per le sue vicino al proprio spawn point. Una strategia più che legittima, ma che di fatto diventa l’unica possibile all’interno di gran parte dei matchup, soprattutto quando si gioca in “solo queue” e non ci sono modi per comunicare con i propri compagni di squadra al di là dei generici sticker. C’è la possibilità – in caso di assoluta parità – di arrivare ad una fase di “Morte Istantanea” in cui l’arena verrà circondata da un campo di forza che andrà sempre di più a restringersi e a infliggere danno a chiunque si trovi al di fuori di questo perimetro. Una buona soluzione di gameplay, ma che avviene all’interno di un overtime che va a durare il più della metà di una partita regolare (5 minuti di cronometro).
Il risultato di tutto questo è un gameplay che risulta un po’ troppo lento rispetto alle premesse iniziali e che al momento non sembra avere dalla sua parte una profondità tale da permettergli di sopravvivere all’interno di un genere che punta sulla longevità e il sostenimento continuo più di qualunque altra cosa. Ironia della sorte, le partite più divertenti e coinvolgenti le ho vissute all’interno della Modalità PVE Missione. Oltre a fungere da simpatico tutorial dedicato all’apprendimento del moveset di ogni singolo personaggio, attraverso tre missioni single player di una difficoltà a mio parere relativamente semplice ma che portano a una serie di brevi sequenze di dialoghi in cui si viene a contatto con il background del proprio beniamino preferito. Detto questo, il matchmaking online in cooperativa offre un’inaspettata esperienza ad orde molto coinvolgente e stratificata, nel quale ogni giocatore può potenziare il proprio personaggio con aumenti per le statistiche, abilità passive e gadget speciali da utilizzare per proteggere l’obiettivo dall’assalto delle Bestie di Bolle, creature molto carine che però avranno come obiettivo quello di insaponare l’intera Bath Vegas e generare il caos. Un gameplay loop breve, ben pensato, ma divertente e che per qualche secondo mi ha fatto pensare se stessi giocando allo stesso Foamstars descritto qualche riga fa.
Foamstars e la sfacciataggine di chi ci prova una quarta volta
Ok, come abbiamo avuto modo di vedere fino a questo punto Foamstars parte da delle premesse abbastanza altalenanti e con un gameplay che non potrà fare altro che migliorare nel tempo. Giusto un paio di patch e qualche stagione e tutto ok, vero? Il problema però è che questo tango speranzoso con Square Enix l’abbiamo già fatto, più volte e all’interno di altri generi convertiti ad uno schema Game as a Service. E purtroppo per Foamstars, chi ci ha lavorato all’interno di Toylogic e soprattutto Square forse siamo arrivati al punto in cui la corda è stata tirata anche troppo. Il più grande difetto della gestione di questo gioco va infatti attribuito alla sua “non-gestione” e alla presunzione dei vertici della casa madre nel pensare che i fan più affezionati a Square Enix siano disposti a supportare un progetto nato su delle basi ancora più fragili dei precedenti.
Abbiamo come nel caso di Babylon’s Fall un gioco dal gameplay potenzialmente efficace e interessante, ma castrato all’interno di un game design che punta alla competitività ma anche al costante grinding di season pass, elementi cosmetici e crediti da utilizzare nell’acquisto di potenziamenti casuali e di varia rarità, e che per raggiungere il cap assoluto per ogni personaggio richiederà svariate ore di gioco. Allo stesso tempo, abbiamo – come nel caso di Chocobo GP, Final Fantasy The First Soldier e Marvel’s Avengers – un costante bombardamento di “MACROtransazioni” dedicate sempre alla personalizzazione dei personaggi, ma che arriva a presentare prezzi fuori da qualunque scala. Passi il Season Pass venduto a 6 euro, prezzo più che ragionevole rispetto a quanto offre, il resto di quanto presente nel negozio di Foamstars rappresenta tutto ciò che i detrattori dei titoli GaaS odiano e guardano con scetticismo. E anche se volessimo prendere il caso del “giocatore balena” pronto a investire centinaia di euro nel proprio account, sono sicuro che anche quest’ultimo ci penserà più volte prima di spendere soldi in un gioco con un matchmaking tutt’altro che soddisfacente. Già dai primi giorni infatti, la mia esperienza a Bath Vegas è stata caratterizzata da errori nell’abbinamento, tempi d’attesa estesi e che a volte hanno superato i 10 minuti e l’impossibilità di poter entrare in partita assieme ad un amico, anche grazie ad una gestione del party piuttosto approssimativa.
E se a questo aggiungiamo un algoritmo di matchmaking che non si basa su una comunicazione tra varie regioni, ma piuttosto singoli paesi e senza la comprovata possibilità che un giocatore dall’Italia possa essere abbinato a un altro utente proveniente dal Regno Unito o da qualunque altra nazione senza smanettare per svariati minuti all’interno delle opzioni di gioco e rischiando comunque di trovare partite una volta sì e svariate volte no, la domanda finale che uno può porsi in fase di recensione è la seguente: ma Foamstars è un gioco progettato durare a lungo oppure no?
PIATTAFORME: PlayStation 5, PlayStation 4
SVILUPPATORE: Toylogic
PUBLISHER: Square Enix
Dopo pochissimi giorni dall’uscita di Foamstars sul mercato, ci troviamo qui a dare un giudizio che potrebbe rivelarsi definitivo. Lo scheletro di Foamstars è quello di un gioco non privo di difetti, anzi. Partendo dal gameplay legnoso e che nel suo contesto PvP non riesce proprio ad ingranare e ad andare oltre la mera curiosità dei primi giorni, la componente PvE ha però mostrato il potenziale di una nuova IP che – con la dovuta cura in fase di aggiornamento – potrebbe portare una nuova “spumeggiante” premessa nel genere TPS e puntare a diventare una nicchia del mondo PlayStation. Il problema è che queste cose ce le siamo dette quasi un anno fa al primo annuncio e nelle successive sedute d’analisi parziale, e anche adesso la solfa non cambia: per funzionare, c’è bisogno che Square Enix e Toylogic tornino davanti alla lavagna e inizino a trovare un compromesso tra le esigenze della “Zaibatsu” che vuole guadagnare ad ogni costo da un genere di struttura online sul quale non ha mai guadagnato al di fuori di Final Fantasy XIV, e la creatività di una software house che vanta talenti di tutto rispetto ma che al momento è costretta a lavorare su un progetto che sembra “nato a tavolino” come gioco di riempimento nel calendario fiscale, piuttosto che la prossima killer app. E se a tutto questo ci aggiungiamo l’uscita che coincide con l’arrivo della demo di uno dei titoli più attesi del 2024 e proveniente da Square Enix stessa, forse quest’ultima frase comincia a diventare molto più che una semplice teoria.
