Yakuza 6: The Song of Life – Recensione

Yakuza 6: The Song of Life ha un grave fardello da mantenere sulle spalle: quello di concludere l’incredibile storia di Kiryu Kazuma, un’icona del Videogioco tutta giapponese. Il suo volto è a tutti gli effetti quello del GTA del Sol Levante, dall’epoca PS2 a oggi. Le aspettative quindi per quelli che, come il sottoscritto, sono cresciuti nel distretto Kamurocho (nella “vita reale” Kabukicho, Tokyo) per oltre 13 anni, sono altissime. E l’attesa per la sua localizzazione, nonostante più “corta” che in altri casi (basti pensare ai circa tre anni attesi per il precedente capitolo della saga principale, Yakuza 5), è stata estenuante.

Se non avete mai giocato uno Yakuza fino ad oggi, vi consiglio caldamente di interrompere la lettura nel caso siate interessati a questi saga e a recuperare i precedenti capitoli. Essendo la componente narrativa un perno centrale dell’intera esperienza del Drago di Dojima e compagni, sarebbe impossibile non incappare su alcuni spoiler sugli eventi precedenti in questa sede di recensione, sebbene parliamo di rivelazioni in cui incappereste già scaricando la demo gratuita disponibile sullo store del PSN. Ma, in ultima analisi, mi permetto di consigliarvi caldamente di giocare le precedenti avventure di questi simpatici yakuza pieni di profondi complessi, prima di approcciarvi alla “canzone della vita” di SEGA.

Nella puntata precedente…

Si, esiste la possibilità di leggere dal menù di gioco dei riassunti di tutti gli avvenimenti precedenti ed è stata inserita addirittura una sequenza interattiva nei primi minuti di gioco dove, attraverso un sogno, vi ritroverete a parlare con tutti i protagonisti principali della saga, ricordando le loro identità e i collegamenti instaurati negli anni con il tortuoso percorso di Kiryu. Inoltre, il finale di Yakuza 5 dove Kiryu si ricongiungeva, ferito e al limite delle sue energie, con una Haruka che aveva rivelato al mondo di voler tornare al vivere con lo Yakuza che l’aveva cresciuta come una figlia, abbandonando la sua carriera di Idol, ci viene mostrato per intero all’inizio del gioco (dove rimarremo, tra una cosa e l’altra, circa 40 minuti fermi a guardare la storia prima di cominciare il gioco). Ma parliamo di sunti davvero ristretti rispetto alla mole impressionante delle centinaia e centinaia di pagine delle sceneggiature passate.

Quantomeno, vi consiglierei di giocare Yakuza 0 e Kiwami su PlayStation 4, per poi proseguire con il quarto e quinto capitolo su PlayStation 3 (si, sono uno di quelli che pensa che Yakuza 3 possa tranquillamente essere “letto” o visto su YouTube e che pensa inoltre che, nonostante alcuni singolari picchi narrativi, rappresenti il titolo meno riuscito della saga finora). No, non ho dimenticato Yakuza 2 (ancora il mio preferito di tutta la serie), ma oggigiorno vi consiglierei di leggere e guardare i suoi avvenimenti sulla rete, perché le probabilità di vedere il suo remake (Kiwami 2) in occidente e a stretto giro sono a mio avviso molto alte.

E se ho voluto spendere tutte queste righe di introduzione nel sottolineare la necessità di non iniziare il vostro rapporto con una delle più belle saghe della terra del Monte Fuji, è perché sarebbe come guardare la trilogia originale di Star Wars cominciando con Il Ritorno dello Jedi. O, peggio ancora, scoprire Metal Gear Solid fiondandosi su Guns of the Patriots. Capireste meno di quello che è necessario capire e vi rovinereste un lungo e bellissimo viaggio videoludico, nonostante gli sforzi “riassuntivi” di SEGA per invogliare i neofiti a giocare questo capitolo conclusivo. Ma torniamo ora alla canzone della vita e alla nostra ultima tappa con Kazuma (lacrimuccia e musica triste). L’impatto con il nuovo motore grafico, è la prima cosa che noterete (anche perché per quasi un’ora non giocherete). E vi prenderà davvero a schiaffi come mai potreste aspettarvi, soprattutto se giocherete su una PlayStation 4 Pro e un pannello 4K e HDR, come durante la nostra prova.

La gloria del Dragon Engine

L’attenzione maniacale per i dettagli, dai pori della pelle a ogni minimo pelo sul volto e sul corpo dei protagonisti maggiori e minori, passando per una miriade di effetti di luce, particellari e di ombre, finendo con le migliori texture e ricostruzioni di capi d’abbigliamenti che si siano visto finora. Roba da arrivare quasi a renderizzare anche il filo spezzato di una cucitura della vostra giacca, con uno spessore visivo capace di trasmettervi la consistenza e il tatto di ogni tessuto. E così via. Sinceramente, mi rincuora vedere che uno dei punti più alti della realizzazione visiva e tecnica del Videogioco, in questa generazione, si sia toccato con una produzione tutta giapponese. E con un motore grafico proprietario. Perché il nuovo Dragon Engine di SEGA, sebbene sia troppo esoso per le PlayStation 4 standard (dove la risoluzione scende al di sotto del Full HD) e non consenta di raggiungere i 60fps a cui ci avevano abituato i frenetici Kiwami e Yakuza 0, è una meraviglia visiva tutta da gustare. E un gigante “in your face” all’occidente da parte di SEGA, se volete il mio parere.

Oltre a goderci questo spettacolo visivo e il sublime doppiaggio giapponese di ogni capitolo della saga di Toshihiro Nagoshi, durante la prima oretta di gioco ci sarà introdotto l’antefatto narrativo delle nostre nuove, violente e tragiche gesta: Haruka è sparita, noi siamo appena usciti di prigione (dove siamo rimasti praticamente per nostra scelta e per tre anni, scontando una pena simbolica per dare un taglio netto alla nostra vita e sbagli del passato) e dobbiamo riprendere i contatti con i nostri vecchi (but gold) amici di compagnia malavitosa, per capire cosa le sia successo. Soprattutto, dobbiamo tornare lì, dove tutto ebbe inizio: a Kamurocho. In tutto questo, sappiate che i nostri bambini dell’orfanotrofio (Morning Glory) ci aspettano a braccia aperte come in una puntata dell’Uomo Tigre (si, lo so e l’avete capito: non sono un grande fan del terzo capitolo della saga e dei suoi risvolti narrativi).

Da qui in avanti, data anche l’età più avanzata del nostro alter-ego tatuato, la tematica di Yakuza 6 sarà sempre chiara e ben delineata: la paternità e le difficoltà di un padre, o presunto tale. O improvvisato tale. Oltre ad Haruka, al centro degli avvenimenti ci sarà anche un neonato, che probabilmente avrete adocchiato già nella demo pubblica o in qualche video: la piccola e graziosa palla di grasso frignante rappresenta uno dei misteri centrali da sciogliere, in questo nuovo e spettacolare lavoro di sceneggiatura per la saga targata SEGA.

Il Dragone delle telenovela

Le nostre vicende, che segnano il cammino di Kiryu per pagare il dazio dovuto con la sua vita passata e diventare genitore (che sia naturale o adottivo, poca importa al nostro eroe), ci porteranno a spostarci in una nuova area, la città di Onomichi: uno scenario atipico finora per la saga, con una grande attenzione all’architettura e un’atmosfera pittoresca e quasi rilassante. In forte contrasto, però, numerose sequenze drammatiche che potrebbero talvolta risultare quasi pesanti. Leggi: da telenovela. Per fortuna ci saranno in contrappeso cospirazioni Yakuza e momenti “crime” caratterizzati dal più alto livello di regia e recitazione toccato dalla serie, e andando avanti il ritmo comincerà ad accelerare gradualmente fino ad una serie di colpi di scena e boss battle coinvolgenti e che vi terranno sul filo del rasoio fino al loro epilogo.

Trama, trama, trama quindi? Ebbene si. Perché l’intreccio narrativo di Yakuza 6 è così ingombrante da voler fare quasi piazza pulita di tutta la dispersione alla quale ci avevano abituato i precedenti capitoli principali e spin-off. Le missioni secondarie sono così brevi da sfiorare il ridicolo in alcuni casi, mentre i minigiochi sono stati notevolmente ridotti di quantità, spessore e purtroppo anche qualità. Persino con le hostess (gentili signorine di accompagnamento in voga in Giappone), passerete molto meno tempo che in passato, dato il loro ruolo ben più marginali e private della profondità con la quale ci avevano abituato in passato. Inoltre, la mappa di gioco si rivelerà leggermente ridimensionata: inaccessibili vecchie glorie come il quartiere sotterraneo di Shangri-La, il distretto degli Hotel e il Distretto Champion. Probabilmente, oltre alla necessità di focalizzarsi su Kiryu e la sua ultima storia, il volume del nuovo motore grafico ha pesato infine sui tempi e costi di realizzazione delle aree di gioco, soprattutto con il livello di dettagli degli interni che troverete in The Song of Life.

Kiryucentrismo

Per quanto riguarda invece il sistema di combattimento, il risultato è “ni”. Nel senso: grazie al nuovo motore grafico, potremo finalmente interagire con tutto (TUTTO) quello che sarà visualizzato sullo schermo. Anche lanciare persone nelle vetrine del negozio affianco, per intenderci. E questo crea varianti delle sequenze “Heat” (la “super” storica del gioco, che va appositamente caricata) da applausi e urla di sorpresa. Però fa sinceramente storcere il naso non ritrovare le novità introdotte da Yakuza 0 in poi, come i vari stili di combattimento da cambiare in tempo reale, a seconda della tipologia di nemici e situazioni. Peccato, perché già giocando qui con il ben più semplice sistema di combattimento classico di Yakuza con il nuovo motore di gioco, ci aspettiamo vere e proprie meraviglie da Kiwami 2 che potrà offrire entrambi i benefici nello stesso momento.

Tra un upgrade dei nostri pugni, una bevuta in un locale dai dettagli pazzeschi e lunghe sequenze narrative, ci renderemo conto inoltre che Kiryu è il perno centrale dell’intero gioco, tanto da lasciare in panchina persino i grandi protagonisti del passato a favore di un cast di supporto totalmente nuovo. Almeno, alcuni di queste new entries sono davvero memorabili e all’altezza del loro ruolo. Ma ora di gioco dopo ora di gioco, ci renderemo presto conto che, paradossalmente, l’ultimo capitolo principale della saga è una meraviglia da vedere, ma meno coinvolgente e divertente di quei due recenti capolavori che rispondono al nome di Yakuza Kiwami e (soprattutto) Yakuza 0.

In conclusione, la mia esperienza con Yakuza 6: The Song of Life è stata costellata di alti e bassi, diventando commovente e pienamente soddisfacente nella sua conclusione. Ovviamente un capitolo che non può non essere giocato da chi ha iniziato la saga nel lontano 2005, tenendo però sempre in considerazione che il team al lavoro su questa oramai storica saga può fare di meglio, come ha recentemente mostrato. Un saluto al Drago di Dojima che, in ogni caso, vi strapperà ben più di una lacrima, come per ogni personaggio che sia entrato nel cuore e nell’immaginario di milioni di Videogiocatori.

Comincia la sua carriera di videogiocatore nel lontano 1985, quasi in fasce, grazie alla passione del padre per il cabinato di Space Invaders. Da quel momento, ha votato la sua vita al videogioco: prima come redattore di riviste specializzate, poi come marketing manager di Fondazione VIGAMUS, su i progetti VIGAMUS & VIGAMUS Academy,. E sì, "Revolver" è in onore dell'inossidabile Ocelot di Metal Gear Solid. Quello di un tempo, almeno.

Accessibility Toolbar