Battleborn – Recensione

Ci hanno infilato davvero di tutto, in Battleborn. A partire dalle meccaniche, che pescano a piene mani da FPS, MOBA, RPG ed Action, fino alle influenze stilistiche che mescolano Fantasy, Sci–Fi, animazione anni ’90 e supereroi. Nel mezzo, per l’appunto, i 25 personaggi che compongono un roster capace di far impallidire persino un picchiaduro nipponico. C’hanno infilato davvero di tutto, sì. Tranne, forse, una personalità ben definita capace, passata la sbornia iniziale, di divertire sul lungo termine. Non sembra improprio definire Battleborn un gioco che, probabilmente, non piacerà a tutti, ma che, paradossalmente, è anche un gioco per tutti. Che i ragazzi di Gearbox, reduci dal successo dei primi due Borderlands, abbiano cercato di fare le cose in grande è evidente sin dalle prime schermate di caricamento. Da un punto di vista strettamente produttivo, si tratta di un titolo AAA, non si discute. Non potrebbe essere altrimenti a fronte ad una mole di contenuti abnorme in alcuni aspetti, carente in altri, evidentemente figlia di uno sviluppo tirato un po’ per le lunghe. In termini estremamente sintetici, Battleborn presenta due facce della stessa medaglia. Da un lato, la modalità storia, che esalta gli aspetti cooperativi sull’altare del ludogodimento solitario, eccessivamente sacrificato. Dall’altra, gli aspetti competitivi, frenati da meccaniche di gioco non sempre ben definite.

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FIRST HEROES SHOOTER

Il troppo stroppia, ma non nell’universo di Battleborn. Un universo enorme, vasto, non da subito leggibile. Il filmato introduttivo chiarisce solo parzialmente il peculiare background. Nella eterna battaglia tra il Bene e il Male, il giocatore, poco sorprendentemente, gioca nella squadra dei buoni, chiamati a salvare l’ultima Stella rimasta in vita in un universo popolato da cattivi. I buoni sono 25 – diventeranno 30 con tempi scanditi mensilmente dai DLC che compongono il Season Pass – e, divisi in 5 fazioni, sono tutti diversi. Letteralmente. Mai visto, in un qualsiasi titolo appartenente ad uno qualsiasi dei generi cui si rifà il gioco Gearbox, tanta opulenza. Alcuni personaggi sono disponibili sin da subito. Altri dovranno essere “sbloccati” soddisfacendo alcune richieste del gioco, come il proseguo della campagna o, alternativamente, un certo numero di vittorie nel multiplayer. C’è il robottone tipo Gundam, c’è il vampiro armato di spade, c’è il robot maggiordomo, nobile, tedesco e pure cecchino. C’è il boscaiolo forzuto, c’è il mago, c’è la guerriera. C’è il soldato modello Spartan. C’è davvero qualsiasi cosa che, dagli 8 bit ad oggi, abbia contribuito ad alimentare l’iconico immaginario supereroistico videoludico. Ed ecco, allora, che Battleborn è, sicuramente, un FPS già conosciuto quando, sullo schermo, è il turno di Oscar Mike. In questo caso, il feeling è quello in dote al Master Chief di turno, forte di un fucile automatico e, quindi, di una cadenza di sparo già metabolizzata in altri lidi. Insomma, siamo di fronte ad un clone di Halo? Macché. Basta cambiare personaggio ed ecco che Battleborn si smentisce.

Battleborn, sì, che, sicuramente, è un FPS, ma tutt’altro FPS, quando il comando passa al Marchese, il cui particolare bastone con pistola incorporata sfodera un mirino ed un colpo dalla lunga distanza L’etichettatura ad un genere ben preciso, però, dura ben poco. Quando si prende il controllo del vampiro samurai Rath, ad esempio, le meccaniche da sparatutto scricchiolano sotto i fendenti dell’istrionico personaggio che, da sparare, non ha proprio nulla. Con Rath cambiano radicalmente le regole di ingaggio e, avvistato il nemico, si cerca subito il contatto fisico che poi innesca lo scontro a brevissima distanza. Cambia l’approccio, cambia anche il set di comandi. A seconda del personaggio cambiano, pure, le abilità speciali “Helix” al servizio di un sistema di crescita dinamico peculiare per ogni “hero”. All’inizio di ogni missione o partita multiplayer si parte da zero, per poi, a colpi di kill e raccolta di punti esperienza, salire di livello. Ce ne sono 10, ed ogni livello chiede al giocatore di scegliere il potenziamento di una delle due abilità disponibili sin da subito. Al raggiungimento del quinto livello, invece, si sblocca una terza abilità. Finita la partita, è tutto da rifare. Quel che rimane è l’equipaggiamento raccolto durante gli scontri che, in maniera sensibile, modifica radicalmente le statistiche di attacco, difesa e recupero di ogni personaggio. Una peculiarità ereditata proprio dai MOBA e mescolata, grazie ai gradi di crescita del giocatore e del singolo personaggio, alle caratteristiche proprie di un RPG.

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La campagna, da affrontare in solitaria o in cooperativa con un gruppo di 4 amici, è composta da 9 missioni. Il collante resta una storia poco più che abbozzata, eppure impreziosita da dialoghi e personaggi fuori di testa, in pieno stile Borderlands. Le missioni sono lunghe, molto lunghe. Forse anche troppo. Al netto di un IA avversaria che, al livello di difficoltà più basso, è in grado di dare subito filo da torcere, Battleborn rivendica, al di la dei proclami, il suo essere un gioco pensato per il multi. Il gioco solitario non paga. Pur contemplato e pubblicizzato, la struttura delle mappe, la tipologia di nemici e i loro attacchi e le richieste ludiche nel corso dell’avanzamento certificano la necessità di fare gruppo. Capiterà spesso, basti un esempio, di essere chiamati alla difesa di una struttura davanti ad orde di nemici. Torrette e droni, da attivare al costo dei frammenti recuperabili sull’area di gioco, permettono un presidio solo parziale degli accessi. Se la difesa fallisce, ed è probabile che accada, fallisce pure la missione, costringendo il giocatore a ripetere tutto dall’inizio. Un’eventualità tutt’altro che remota, ma resa meno probabile quando le missioni vengono affrontate con un gruppo di amici, magari ben coordinato, o in multi locale, grazie al mai così utile split screen. Quello stesso gruppo di amici che poi, magari, è chiamato ad affrontare gli aspetti competitivi. Il PVP di Battleborn presenta una manciata di mappe e tre modalità di gioco, al servizio di due squadre composte da 5 giocatori.

Incursione è quella che più si avvicina alle meccaniche Moba. In sintesi, occorre conquistare la base avversaria e, nel contempo, cercare di difendere la propria. Fusione è una variante sul tema. La discriminante è l’avanzata dei minion alleati, Lemmings d’eccezione sacrificabili nel tentativo di distruggere la base avversaria. Devastazione è una sorta di deathmatch a squadre che, al blastamento di nemici e bot aggiunge anche quello di distruggere due sentinelle nemiche da 50 punti l’una. Chi arriva a 100 vince la partita. Il reset dei potenziamenti Helix all’inizio di ogni match garantisce un certo equilibrio, in parte scalfito dall’equipaggiamento raccolto dai giocatori durante l’intera esperienza, chiamati, proprio come nelle missioni della storie, a livellare il proprio personaggio all’interno di ogni singolo scontro. Le partite in multi sono all’inizio frenetiche, divertenti e impreziosite dalle diverse caratteristiche degli eroi. Eppure, già dopo pochi giorni di gioco, la carenza di mappe e il ripetersi delle stesse identiche situazioni vengono solo in parte attutite dalla varietà dei personaggi. Giusto far notare come non si raccolgano armi, in Battleborn. L’arsenale resta quello in dote ad ogni singolo eroe capace, sempre grazie al solito Helix, di potenziare le proprie abilità e il proprio armamento, anche grazie alla creazione di ibridi, ma mai di stravolgerlo. Stupisce come, a fronte di una notevole mole di contenuti presente in altri aspetti di gioco, Battleborn paghi dazio proprio nel numero di mappe e, inevitabilmente, nella varietà di situazioni. Pur zeppo di influenze, insomma, spiace rilevare come la fatica di Gearbox non riesca d eccellere in nessun aspetto, mancando forse quella profondità che sarebbe lecito aspettarsi da un prodotto di questa portata.

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La direzione artistica al servizio di Battleborn è, proprio come il gioco stesso, difficilmente inquadrabile. Nel frullato di generi, derivazioni e stili, l’universo del gioco di presenta incredibilmente colorato. La palette di colori utilizzata è sempre accesa, sia che si tratti di attraversare una rigogliosa foresta, sia che si combatta all’ombra di un rosso tramonto spaziale,”tra alberi di mandarino e cieli di marmellata”. Le particolari scelte cromatiche si riflettono sul look dei personaggi: quanto accennato sui protagonisti, strappati di peso da due dozzine di videogiochi, fumetti e cartoni animati diversi, può essere ribadito anche per i nemici, variegati e caratterizzati. A tanta varietà non corrisponde, però, una direzione omogenea ed il rischio è quello di mal tollerare il frullato, che in tanti troveranno sin troppo indigesto. Tecnicamente il gioco non fa certo gridare al miracolo. Ancorato a 30 FPS, il motore grafico non incappa in rallentamenti, mettendo sul piatto un poligon count soddisfacente e un utilizzo sapiente di effetti particellari e filtri al servizio di texture di qualità media. Nulla di trascendentale, ma abbastanza per disegnare il look da cartoon anni ‘90 pennellato dagli artisti di Gearbox. Soddisfacente il comparto sonoro, che gode di un doppiaggio italiano generalmente di buona fattura e capace, anche, di sottolineare particolari cadenze linguistiche. L’unica perplessità ricade sul personaggio di Thorn, pulzella elfica munita di arco e, a giudicare dal particolare accento, di chiara origine sarda.