Innanzitutto, mi preme dire che non è compito nostro giudicare un videogame sotto il profilo “etico”. Casomai, possiamo valutare la pericolosa potenza di una tematica, come in questo caso, e cercare di capire se un soggetto controverso, il gameplay e le idee di sceneggiatura sono riusciti – tutti insieme – a uscire artisticamente da un territorio così insidioso. Nel caso vogliate approfondire le questioni legate al dibattito sull’attuale sistema PEGI, il nostro acuto Todeschini ha già esplorato in diverse occasioni, ad esempio qui, quelle che possono essere le posizioni e in qualche modo le difese di fronte a opere estremamente “adulte” e violente come Hatred, non certo per i giocatori maturi (e potenzialmente malati di mente, ma questo riguarda qualsiasi media di intrattenimento), ma principalmente per le famiglie. Le virgolette non sono messe a caso, però, perché il gioco di Destructive Creation non è certo “maturo” nel senso di The Witcher o, ancora meglio, di Hotline Miami, ed è anzi estremamente semplice nel proporre la sua nichilistica e volutamente insensata mattanza, a tratti con un linguaggio addirittura elementare. Tutto è fin troppo semplice e ludicamente imperfetto, ed è qui che la qualità del gioco arriva a toglierci d’impiccio.
CATTIVERIA A DENTI STRETTI
Se a qualcuno è venuta in mente la sostanza di Postal, magari prestando poca attenzione ai video di Hatred, l’intuizione è valida solo a metà. Da un lato, la storia è sempre quella di un individuo visibilmente sociopatico che, come nel detto americano “going postal” (l’assassinio multiplo di civili in un luogo proverbialmente affollato, come appunto gli uffici postali), si sveglia una mattina e decide di perpetrare una strage, partendo dai vicini di un tranquillo quartiere di provincia; dall’altro, l’impianto del gameplay non è fondato su missioni sceneggiate e toni parossistici, e anzi il tono si fa spesso greve, con piccoli e trascurabili tocchi ironici. Siamo di fronte a un un brutale dual stick shooter (definizione ludicamente ben rappresentativa, ma Hatred si gioca bene anche con mouse e tastiera) dove è necessario abbattere un certo numero di bersagli – che siano civili, poliziotti o specialisti dell’esercito – e attivare liberamente gli obiettivi opzionali sulla mappa, generalmente risolvibili in un nuovo sterminio.
Va da sé che questi compiti hanno esattamente la sostanza che immaginate. L’energumeno pesantemente armato viene messo in diverse “situazioni simbolo” – un comizio elettorale, ad esempio, o la presentazione dell’ultimo telefonino alla moda – e ha in questi casi l’opzione di svolgere una piccola azione e di sfasciare il luogo indicato, invece di concentrarsi sulle uccisioni che sbloccano la mappa successiva. Lo schema è brutale anche nelle regole di base: lo psicopatico senza nome può riguadagnare energia solo con le “esecuzioni”, ovvero finendo i poveracci non uccisi all’istante, talvolta con una piccola animazione e molto più spesso con le cruente final-kill che abbiamo visto nei trailer. Niente da dire sull’impostazione libera e sfrenata dell’azione, ma certo sarei stato meno a disagio di fronte ai soliti (e carissimi) zombie o – perché no – dinnanzi a qualche altra trovata ispirata, ma non coincidente, con la peggiore delle realtà.
[quotedx]Hatred finisce così presto da non innervosire nemmeno[/quotedx]Le armi sono quelle più “reperibili”, naturalmente, almeno negli store di molti stati americani. Di base il protagonista ha a disposizione un fucile semiautomatico e diversi ordigni comprati o fatti in casa (esplosive, incendiarie e stordenti), e avrà bisogno di reperire mitragliette, fucili a pompa e altre armi dai cittadini decisi a difendersi, oppure da poliziotti e squadre speciali, per completare il massacro e arrivare anche più in là di quel che avrebbe immaginato. L’incubo narrato nelle missioni è proprio questo: il massacro è in fin dei conti simile a quelli che, tristemente, vengono narrati dalla cronaca nera – americana ma non solo – con la differenza che in questo caso non arriva mai il momento in cui il pazzo viene arrestato o ucciso, se non nei pressi di un epilogo calzante ma abbastanza scontato.
NESSUNO USCIRÀ VIVO DA QUI
Sotto il profilo strettamente shooter, Hatred fa vedere le cose migliori nel livello di distruttibilità delle ambientazioni, pressoché completo in molti casi, oltre che in un sistema di controllo basilare ma efficace, con la possibilità di abbassarsi per mirare meglio, oppure di allontanare un poco la visuale puntando l’arma, sulla base di una inquadratura semi-isometrica che rende dinamicamente trasparenti i muri e le coperture quando entriamo in un edificio, ma anche quando ci sono dei nemici sulla linea di mira. Fra le cose orchestrate discretamente metto anche il buon livello di sfida, progressivo e incalzante (la vita è una sola per livello, a meno di conquistarne altre con gli obiettivi opzionali), una delle ragioni principali per cui sono arrivato al finale senza troppi sforzi, nonostante la forte ripetitività di base. La fattura visiva non è malaccio, soprattutto nelle animazioni e nelle già citata possibilità di distruggere tutto, accanto a uno stile estetico d’ispirazione cinematografica non inedito ma comunque dignitoso, specie in alcuni effetti di luce e rifrangenza. D’altra parte, l’ambito tecnico è quello in cui iniziano i veri problemi: al di là di piccoli bug, ad esempio sul sistema di “trasparenza” appena descritto, le intelligenze artificiali risultano fin troppo basilari e aggressive, al punto che cittadini e nemici iniziano a sparare nel momento in cui entriamo nel loro spazio di rilevamento, indipendentemente dal fatto che siamo coperti da un muro o da un intero palazzo.
Considerata, poi, l’inutilità pressoché totale dei veicoli giocabili, non abbiamo ben capito il loro inserimento. Le direzioni di controllo dei mezzi non sono relative alla visuale – come quelle, canonicissime, del PG – bensì al muso dei veicoli stessi che, per lo stesso motivo, risultano fastidiosamente difficili da gestire. L’irrealistica velocità nel danneggiarli e gli scarsi motivi per usarli (una mitragliatrice sul tettuccio dei blindati, in alcuni casi), indicano una scelta precisa da parte degli sviluppatori, atta a non abusare dei mezzi a discapito della componente shooter, il che porta comunque a chiedersi, credo legittimamente, la ragione per cui sono stati implementati. D’altra parte, Hatred finisce così presto da non innervosire nemmeno, davanti ai suoi limiti più vistosi, e anche i motivi di rigiocabilità – dopo una manciata di ore in modalità difficile – sono scarsi o nulli a seconda dei punti di vista, con mappe libere nell’esplorazione ma alquanto contenute in grandezza. Al massimo, possiamo salutare il gioco più controverso dell’anno con un sonoro e sommesso meh.