In occasione della presentazione italiana di God of War: Ghost of Sparta, abbiamo fatto due chiacchiere con l’italianissimo fondatore di Ready at Dawn. [Speciale]
In occasione di una sua breve visita in Italia per promuovere il lancio di God of War: Ghost of Sparta per PSP, in uscita il prossimo 3 novembre in Europa e in Italia, abbiamo avuto occasione d’incontrare (in un delizioso ristorante nel centro di Milano, perché si sa: a tavola, davanti ad una bella bistecca fumante ed un bicchiere di buon vino è più facile parlare…) Andrea Pessino, fondatore e vicepresidente di Ready at Dawn” il team californiano responsabile della realizzazione del gioco, che vede proprio in Andrea (che dal 1990 vive negli USA, ma è nato e vissuto nell’italianissima Asti sino all’età di 22 anni) la mente dietro all’intero progetto. È stata una bell’occasione per parlare, oltre che del suo prodotto, di videogiochi in generale. Ecco cosa ci ha raccontato, tra un Tortellone al Sugo di Chianti e un boccone di Filetto Lardellato…
Games Village: Andrea, prima ancora di cominciare a vedere le opportunità professionali nel mondo dei videogiochi, possiamo cercare di capire perché in Italia è così difficile anche soltanto parlarne? Proprio ieri il sindaco di Milano, Letizia Moratti, commentando in un talk show serale (Matrix) la vicenda del taxista ridotto in fin di vita a calci e pugni da dei balordi, ha attribuito ai videogiochi una delle cause principali di crescita della violenza tra i giovani. Cosa ne pensi? Cosa potremmo fare tutti noi per introdurre un serio cambio di mentalità?
Andrea Pessino: il pregiudizio nei confronti dei videogiochi è difficile da sradicare. Serve un cambio di mentalità, che è già in atto, ma ci vorrà forse ancora una generazione perché ciò avvenga veramente. E non credere che sia un problema italiano: anche da noi negli USA le cose non vanno molto meglio; di recente Hillary Clinton ha attaccato i videogiochi sostenendo la stessa tesi del vostro sindaco. Il fatto è che sono un capro espiatorio facile; e al potere, ai politici in particolare, fa comodo avere qualcosa su cui scaricare rapidamente le colpe per qualcosa che non va, e i videogiochi per questo sono perfetti! Quando ero giovane e i videogame erano ancora agli albori, politici e potenti davano la colpa ai fumetti che, ora, invece, nessuno considera più pericolosi. Un giorno capiterà così anche per i videogame e i politici troveranno qualcos’altro da attaccare. Non credo che nessuno di noi, realisticamente, possa fare granché, a meno di non diventare politici a nostra volta (sorride)…
GV: In ogni caso, oggi in Italia la situazione è quel che è, perciò ti chiedo: se un giovane game designer italiano di talento desiderasse, oggi, seguire la tua strada, gli consiglieresti di fare come te, cioè andare negli USA, oppure in qualche altro paese estero, o credi che ci siano delle opportunità anche qui da noi, a prescindere dalla situazione attuale?
AP: Quando io sono partito per gli USA non c’era praticamente nulla, né là né qua. Era la fine degli anni ’90: internet stava cominciando a diffondersi, ma ancora in modo molto lento. Esistevano già giochi e tool shareware, ma non si potevano scaricare su internet perché la banda larga, in pratica, non esisteva ancora, perciò realizzare un prodotto shareware per farti conoscere come game designer aveva costi notevoli e notevoli difficoltà logistiche di distribuzione perché dovevi realizzare dei supporti fisici, cioè dei dischetti (ai tempi si usavano ancora i floppy disk!) da realizzare e distribuire in giro.
Oggi questa difficoltà non esiste più: a un giovane game designer serve soltanto un buon computer e una connessione internet stabile a banda larga, null’altro. Dalla rete puoi ottenere tutti i tool, gli strumenti, il supporto necessario per realizzare un buon prodotto, anche se “artigianale”, e quel che occorre per farti conoscere, rendendolo disponibile in maniera gratuita per il download. Quel che realmente serve è una buona idea, senza esagerare nella programmazione. Un esempio che ho visto di recente è un piccolo gioco indipendente, chiamato Minecraft. È una grande idea, anche se realizzata con pochissima programmazione. Questo lo può fare benissimo chiunque comodamente a casa sua, in Italia. Oggi sconsiglierei di tentare la fortuna all’estero, negli USA in particolare, complice la crisi e la grande competizione che ne consegue. Se proprio uno vuol provare ad andare all’estero, può essere un’opportunità di crescita e di formazione, ma gli consiglierei di restare in Europa, in Francia e Inghilterra soprattutto.
GV: Quali sono i requisiti, i talenti necessari per un game designer? Quale la formazione necessaria per affermarsi?
AP: È una domanda un po’ generica, perché di “game designer” ce ne sono di tanti tipi: oggi un gioco, anche per una console portatile, non si fa più come una volta. Considera, ad esempio, che il team che sta dietro alla realizzazione di God of War: Ghost of Sparta è composto da circa 150 persone tra grafici, game designers, musicisti, programmatori, ecc… Pensando al ruolo di “Lead game designer”, cioè quello che il gioco lo segue e lo concepisce, dall’idea iniziale sino alla data d’uscita, direi che le qualità necessarie sono tante ma tra tutte la più importante è, probabilmente, la forte leadership: la personalità, la capacità d’immaginarsi un’idea, credere in un progetto in maniera talmente forte da trasmetterlo, farlo assimilare anche dagli altri membri del team che saranno chiamati a realizzarlo fisicamente. Non esiste, però, un percorso formativo “classico” per diventare Game Designer. Negli USA forse siamo un pochino più avanti rispetto all’Italia, ma io credo che anche qui la formazione necessaria per diventarlo sia più che sufficiente. La crescita di un professionista dell’industria dei videogiochi, però, è fatta in gran parte d’esperienza e miglioramento personale e lì non c’è scuola o università che tenga.
GV: Parliamo di nuove tecnologie: motion gaming (Wii, Move, Kinect) e 3D: secondo te saranno il futuro, o sono solo fuochi di paglia?
AP: Nessuno dei due. Sono semplicemente nuovi segmenti di mercato, che prima non esistevano, aperti a nuovi tipi di consumatori che, limitatamente all’industria dei videogiochi, prima non esistevano. Il 3D, in senso stretto, non cambia di una virgola l’esperienza ludica, la rende forse più impressionante, ma un giocatore immerso nell’universo del gioco ben presto si dimenticherà di vederlo in 3D. Voglio dire: un gioco concepito male, con un brutto motore grafico, oppure noioso sul piano del gameplay continuerà ad essere un prodotto mediocre, e il 3D non potrà migliorarlo in alcun modo. Un gioco fatto bene continuerà ad essere bello, 3D o meno. Per quanto riguarda il motion gaming, inoltre, è soltanto un nuovo genere che, credo, difficilmente potrà attrarre gli hardcore gamer, anche se spero di essere smentito. Per come la vedo io il motion gaming resterà esclusivo appannaggio dei casual gamer. Continuerà però ad esistere, parallelamente al modo “classico” di fare e giocare i videogame.
GV: Parliamo del fenomeno iPhone e mobile gaming in generale: tu hai lavorato a un gioco “mobile”, God of War: Ghost of Sparta per PSP. Quale sarà lo sviluppo per queste piattaforme mobili, come PSP e DS di intendo? Si tratta diconsole piuttosto diffuse, ma avranno ancora senso tra cinque anni o le piattaforme simili a iPhone le renderanno obsolete?
AP: temo che la risposta non mi renderà particolarmente popolare in Sony ma, sì, credo che le piattaforme portatili tradizionali come PSP e DS abbiano i giorni contati. Intendiamoci, sono ancora molto forti ma la concorrenza rappresentata da iPhone, da Android e da tutto il nuovo modello di business, di acquisto e distribuzione dei videogiochi inventato da Apple e ormai diffuso trasversalmente in tutti i dispositivi “touch” sia il vero futuro. Oggi le console portatili, rispetto ai dispositivi touch screen hanno ancora un solo grosso vantaggio: il joypad analogico, perché il joypad virtuale di iPhone o di tutti gli altri, per un vero giocatore, fa schifo. Non appena verrà introdotto sul mercato un dispositivo in grado di colmare questo gap credo che non ci sarà più storia, perché dalla loro gli smartphone touch hanno invece un vantaggio tecnologico enorme: quello della connessione continua con internet. Io spero che sia proprio Sony a sviluppare un dispositivo simile, altrimenti la corsa per il mobile gaming sarà persa definitivamente.
GV: Parliamo di Ready at Dawn, la società che hai fondato e che ha già realizzato molti titoli, tra cui Daxter e due capitoli diversi di God of War. Cosa ti ha spinto a iniziare quest’avventura? Eri arrivato a occupare una posizione di primo livello in Blizzard, forse la più importante realtà dell’industria videoludica. Cosa ti ha spinto a fondare una nuova società, a fare una scelta imprenditoriale che, ovviamente, comporta rischi, anche consistenti, d’impresa? Insomma, chi te l‘ha fatto fare?
AP: Beh, si tratta di una precisa scelta di vita, non solo di evoluzione professionale e, come tutte le scelte di vita riflette la personalità, il carattere, l’indole di chi le percorre. Nel mio caso specifico, una cosa che mi ripeto da sempre è: “preferisco essere terrorizzato che annoiato”. Da qui discende il tutto, compresa la propensione al rischio che, in qualche modo, caratterizza tutta la mia vita. Naturalmente avrebbe potuto andare male se Daxter, il nostro primo gioco, non avesse avuto il successo che ha avuto, ma ci abbiamo messo letteralmente l’anima (così come in tutti i giochi a seguire, compreso Ghost of Sparta), e adesso posso dire che è stata una scelta vincente. Ai tempi, naturalmente, non ne ero affatto certo. Non è comunque il genere di scelta che consiglierei a chiunque…
GV: Come cambia la vita privata, relazionale, familiare, per uno che fa un mestiere come il tuo? È molto invasiva? C’è il rischio di essere considerati nerd? Come cambierà la società, per effetto dei videogiochi?
AP: L’equazione “appassionati di videogiochi = nerd” credo che, per fortuna, sia ormai definitivamente tramontata, almeno negli USA ma, per quello che vedo, anche qui in Italia. Se venissi a farti un giro a Ready at Dawn, e spero che un giorno ci verrai, incontrerai un sacco di gente addirittura fanatica di videogiochi, ma con una vita relazionale normale, persino più vivace della media. Io ho avuto il piacere di conoscere moltissimi giocatori che hanno provato i titoli realizzati da Ready at Down e, insomma, è gente assolutamente “normale”, in gamba. Alla fine i videogame, sia per chi ci lavora, sia per chi ci gioca, sono una passione assolutamente normale, non dissimile da molte altre. In questo credo che i videogame cambieranno la società: inserendosi molto lentamente, ma con grande naturalezza nella vita di tutti i giorni, come la TV, il cinema, lo sport e qualsiasi altro fenomeno sociale. Per quanto riguarda la nostra vita famigliare, beh, questo dipende semplicemente da come lavori. I videogiochi in sé non c’entrano. Voglio dire: quando abbiamo realizzato Daxter, per tre anni tutti noi, in Ready at Dawn, abbiamo fatto una vita d’inferno, lavorando anche 12-15 ore di fila sul gioco. Andavamo a casa la sera tardi, alle 2 di notte, e la mattina alle 8 eravamo di nuovo al lavoro. Benché ne sia uscito un prodotto eccellente, abbiamo capito che comunque il gioco non valeva la candela e oggi ci siamo imposti ritmi lavorativi compatibili con la nostra famiglia, la nostra vita sociale, ecc…. Ma, insisto, questo ragionamento non ha nulla a che vedere coi videogiochi, si potrebbe replicare per qualunque tipo di professione!
GV: Grazie per l’intervista e in bocca al lupo per il nuovo titolo!
AP: Grazie a te, grazie a tutti i lettori e buon divertimento con God of War: Ghost of Sparta!