Speciale Fallout – File #3: Back to the West

Da Washington a New Vegas, per ricordare vecchi amici e farsene di nuovi. Oppure per morire ammazzati da un Deathclaw.

Se dovessimo guardare alla saga di Fallout in un’ottica puramente narrativa, il terzo capitolo risulterebbe quasi uno “spin-off” dell’universo originale, in cui si racconta l’inizio di una nuova epopea sulla costa orientale degli Stati Uniti. Allo stesso modo, l’ambientazione dell’imminente New Vegas potrebbe sembrare l’ideale prosecuzione del mondo descritto nei primi capitoli: un luogo dove la razza dei super-mutanti, conseguenza biologica della diffusione del Forced Evolutionary Virus, può addirittura aspirare all’appellativo di “civile”, mentre l’abbagliante sole del South-West rende i panorami meno opprimenti, donando alle wasteland un aspetto ancora più grottesco e surreale.

Le avventure nel deserto del Mojave, inoltre, aggiungono suggestioni nuove e, al contempo, raccolgono spunti dal passato, provenienti dai primi episodi ma anche dalle quest rimaste “ingabbiate” nel codice di Van Buren. Agli occhi dei sopravvissuti all’apocalisse, la scarsa vegetazione risulta paradossalmente “rigogliosa”, essendo stata risparmiata dagli effetti più devastanti della guerra atomica, mentre le mille luci della (nuova) città del vizio fanno da sfondo allo scontro fra fazioni potenti e agguerrite, come la New California Republic e l’“inedita” Caesar Legion (in realtà, è apparsa anche nel dimenticabile episodio action per PS2 e Xbox). Il Sud-Ovest degli Stati Uniti e questi stessi eserciti avrebbero dovuto far parte del progetto abortito nel 2004, di cui il nuovo episodio stand alone riprende vari aspetti non solo nella trama, ma persino in alcune caratteristiche (minori) del gameplay, onorando le radici di una parte importante del team Obsidian, nate dallo scioglimento di Black Isle Studios. Ovviamente, però, seguendo questa interpretazione del cammino di Fallout, come se il marchio e i “Fallout Canon” non fossero mai stati acquisiti da Bethesda, faremmo un errore imperdonabile sotto il profilo squisitamente videoludico, perché New Vegas è, a tutti gli effetti, il figlio legittimo della rivoluzione voluta dagli sviluppatori di The Elder Scrolls, anche se omaggia in maniera più evidente le origini del mito.

La strada maestra scelta da Bethesda, d’altronde, è ormai nota a tutti. Nel titolo del 2008 come nel nuovo episodio, le wasteland sono state unificate sotto la bandiera del tempo reale e dell’ibridazione con gli FPS, tenendo però le logiche di ruolo ben salde al centro dell’esperienza. Per alcuni è stata la realizzazione di un sogno, per altri un vero e proprio stravolgimento dei meccanismi originali: durante la sequenza sull’infanzia del nostro personaggio, uno sguardo distratto agli attributi S.P.E.C.I.A.L. e alle abilità può dar l’impressione che, in fine dei conti, le logiche di ruolo non siano cambiate poi molto, al di là della nuova interfaccia integrata nel Pip Boy 3000. Sotto una superficie fatta di sigle e vocaboli riconoscibili, però, emergono novità rilevanti nel ricorso alle skill, ridotte nel numero e nel range-percentuale, e nell’uso dei perk, disponibili a ogni passaggio di livello e per questo più influenti nella personalizzazione dell’eroe, con conseguenze al contempo funzionali e più “coreografiche”.

A queste variazioni, naturalmente, si affianca la maggiore accessibilità dei combattimenti e delle interazioni con il mondo di gioco, che non sottendono ad alcun calcolo dei turni e offrono al giocatore un margine maggiore di sopravvivenza, vista l’impossibilità di verificare con precisione le chance di riuscita per ogni “mossa” (parola, d’altronde, che nel nuovo contesto perde quasi di significato). In questo senso, il nuovo livello di difficoltà introdotto in New Vegas, sulla scia di vari mod realizzati per F3 (sempre dai modder proviene l’idea delle armi up-gradabili, non troppo lontana dagli ultimi S.T.A.L.K.E.R.), cerca di accontentare chi si è fatto le ossa con l’elevata difficoltà dei capitoli precedenti.

Anche le feature pensate per Van Buren, oppure già accennate in Fallout 2, non possono non solleticare gli appetiti dei giocatori affezionati all’universo originale, che per anni hanno sbavato su un seguito nelle mani di BIS, per poi vederlo sfumare. Chris Avellone e soci hanno voluto potenziare il ruolo degli alleati, sia durante le fasi di combattimento, quando sono controllabili da un’apposita interfaccia, sia nelle decisioni che riguardano il mondo di gioco, basate su quest e idee “personali” potenzialmente influenti per le decisioni del “Corriere” (l’eroe del nuovo Fallout, come sempre identificato dal suo compito iniziale). Sulla maggiore autonomia degli NPC si innesta anche la reintroduzione del valore “Reputazione”, decisamente più flessibile e moralmente ambiguo rispetto al Karma, in questo caso applicato alle logiche su vasta scala che avrebbero dovuto animare la versione definitiva di Van Buren. Persino la scelta di reintrodurre i trait e scandire maggiormente i perk, rendendoli disponibili ogni due livelli, sembra puntare a riappacificarsi con la parte più diffidente della comunità, pronta a giocare per centinaia di ore al nuovo capitolo ma anche a criticarne senza pietà i contenuti. Oppure, potrebbe trattarsi di un contentino, servito ai piedi di un’opera monumentale e ambiziosa, pronta a riproporre la sua fortissima personalità al prossimo giro di giostra firmato Bethesda.

Al di là dei gusti personali, è difficile ignorare la complessità formale del terzo capitolo, con la sua rilettura dettagliata e vitale dell’iconografia di Fallout. Naturalmente, ognuno ha la sua scala di valori rispetto a come un RPG debba dosare il puro coinvolgimento e il senso di sfida con il sistema di gioco. Il lavoro di Bethesda, comunque, non può che risultare nel complesso un’opera di grande spessore, in primis per la capacità di interpretare al meglio una delle vocazioni primarie della saga, la stessa da cui siamo partiti: Fallout è da sempre un enorme contenitore di stimoli e suggestioni provenienti dai quattro angoli della fantascienza, mixati senza mai perdere di vista il “faro” dei rampanti anni ’60, e la versione sviluppata da Bethesda non ha fatto che assecondare questi influssi culturali fino ad ampliarne a dismisura le prospettive. Gli esempi sono tanti: intorno a Washington DC è possibile imbattersi in situazioni ispirate all’opera di Philip K. Dick, nella quest sull’identità dell’androide e nell’esperienza virtuale di Tranquillity Lane (in debito con il romanzo “Ubik”, oltre che con “Simulacron 3” di Daniel F. Galouye); si può rimanere coinvolti in una setta che adora “la Bomba”, come nel film “L’altra faccia del pianeta delle scimmie”; si può incontrare la fine del sogno americano negli incubi gore d’inizio anni ’70, con omaggi a George Romero e Tobe Hooper rispettivamente nella missione della Tempenny Tower e nel DLC Point Lookout; e infine, la comunità di bambini che troviamo in mezzo ai canyon riporta alla mentre, ancora una volta, l’ultimo Mad Max, insieme ai suoi marmocchi che lo credono il messia.

Naturalmente, questi sono solo alcuni dei riferimenti più evidenti e riconoscibili, perché dopo 100 ore di gioco si possono sempre incontrare famiglie di cannibali dalla fine educazione borghese, oppure enormi super-mutanti ingabbiati dai predoni nel cuore del deserto: molti fra gli NPC non hanno un peso rilevante al fine delle quest, ma sono invece fondamentali per il senso di scoperta che accompagna ogni passo del giocatore, anche in località perse ai margini della regione. In questo senso, c’è solo da augurarsi che Fallout: New Vegas riesca a proporre un paragonabile livello qualitativo. Per saperlo con certezza non resta altro da fare che aspettare la recensione, in arrivo su GamesVillage tra poco meno di una settimana.