The Last of Us – Recensione

The Last of Us

Che i ragazzi di Naughty Dog siano degli sviluppatori con i controfiocchi è fuori discussione: la serie di Uncharted è sempre stata un palcoscenico incredibile per l’abilità tecnica e artistica sfoderata dal team di sviluppo americano. Non solo, tra i tanti giochi “tripla A” che affollano il mercato, le avventure di Drake sono state quelle che più si sono avvicinate al concetto di vero blockbuster cinematografico: il “popcorn movie” spettacolare e fracassone, pieno di azione, esplosioni, scambi di battute sagaci e scenari mozzafiato. Lo spirito avventuroso, spettacolare e sbarazzino di Uncharted, dove i nemici cadono come mosche, le antiche città franano e tutto ciò che può esplodere… beh, esplode, non è stato, però, l’unico asso nella manica dei Naughty Dog. La cura nel presentare i loro personaggi, assieme all’ottima alchimia tra i membri del cast che hanno dato voce e movimenti a Drake e compagni, sono l’altro aspetto che li ha sempre distinti. Da The Last of Us, quindi, non mi aspettavo niente di meno, ma in realtà questo clamoroso team ci ha dato molto di più, andando – paradossalmente – a sottrarre piuttosto che ad aggiungere, per dare vita a questo survival horror così toccante…

LA FINE DELLA CIVILTÀ
Come ormai dovrebbero sapere anche i sassi, in The Last of Us ci troviamo ad affrontare un lungo viaggio in un mondo postapocalittico: vent’anni fa, un fungo mutato ha contagiato la razza umana, diffondendosi a macchia d’olio in tutto il pianeta e trasformando i suoi ospiti in creature mutanti ben più che “aggressive”. Il genere umano si è ridotto al lumicino e da lì a breve la civiltà che conosciamo ha salutato tutti, con i pochi sopravvissuti che hanno trovato rifugio in zone di quarantena urbane gestite con pugno di ferro dai militari, o organizzandosi in piccole comunità che si arrabattano come possono, saccheggiando il saccheggiabile e poi… e poi ci sono le Luci, un gruppo di ribelli che vorrebbe opporsi ai militari nel tentativo di creare delle condizioni di vita più giuste per tutti.
In questo mondo disastrato, si muovono i nostri protagonisti: Joel, che assieme alla sua compagna Tess, contrabbanda merci di nascosto dall’esterno all’interno della città di Boston ed Ellie, una ragazzina che ben presto si unisce alla coppia per essere “contrabbandata” fuori città. Senza andare a svelare null’altro della trama – sarebbe criminale – è nel rapporto umano tra Joel ed Ellie che si regge buona parte del gioco e della sua eccellenza. Se è vero, come detto prima, che gli sceneggiatori di Naughty Dog sanno scrivere e dare vita ai loro personaggi, mai prima d’ora avevano messo in scena una storia così umana, viva, emozionante e priva degli aspetti leggeri e più scanzonati di Uncharted. Un conto è scrivere un simpatico guascone come Drake, che snocciola battute e flirta con le sue comprimarie tra una sparatoria e un treno che deraglia, un altro paio di maniche è creare un universo di personaggi umani e credibili come quelli che costellano The Last of Us. Certo, nel rapporto tra Joel ed Ellie c’è il grosso della potenza emotiva e umana di quest’avventura priva di fronzoli, ma sono anche tutti gli altri comprimari che si incrociano lungo la strada a risultare credibili e umani. Bisogna proprio avere una penna felice per riuscire a caratterizzare dei personaggi secondari che rimangono scolpiti nelle mente, anche se a volta si passa con loro poco tempo e ben poche battute. Il merito non va solo agli sceneggiatori, ma anche agli attori che hanno dato vita alle loro controparti digitali: la performance capture ha fatto passi da giganti e molte delle scene madri sono tali non tanto per le battute pronunciate, quanto per le espressioni, gli sguardi e i piccoli gesti compiuti. Già che ci siamo, diciamolo subito: per una volta anche la localizzazione è di ottima fattura e a parte un paio di sbavature, il lavoro svolto è stato eccellente.

SOPRAVVIVERE CON POCO
A livello di dinamiche videogiocose, The Last of Us è meno sorprendente ma, pur nella sua natura derivativa, offre uno stile di gioco coerente ed essenziale che ben si sposa alla sue scelte narrative. Il lungo viaggio di Joel ed Ellie, a un primo sguardo, potrebbe ricordare lo stesso Uncharted ma l’approccio scelto è opposto e più in linea con quello di un survival horror: Joel non è un aitante fisicato avventuriero, si arrampico poco e a fatica, ha i suoi anni e anche la sua corsa non è certo scattante. Riuscire a sopravvivere per vent’anni all’apocalisse gli ha permesso, però, di avere un minimo di confidenza con le armi e sa anche che quando ci si trova di fronte agli infetti, muoversi di soppiatto ed evitarli è spesso l’unica scelta possibile e sensata. D’altronde le munizioni scarseggiano e bisogna veramente rovistare ovunque per non trovarsi quasi sempre a secco. A questo si aggiunge un sistema di “crafting” di alcuni oggetti speciali, uno di potenziamento delle armi e uno che migliora alcune caratteristiche di Joel, ma sono veramente aspetti marginali e volutamente leggeri nell’economia di quest’avventura. Un approccio minimalista che rende il gioco gustoso e godibile senza appesantirlo con mille sistemi.
Il tempo, in The Last of Us, lo si passa soprattutto ad esplorare alla ricerca di risorse e della strada da percorre, a risolvere qualche enigma ambientale e, in ultimo, a combattere. In un mondo ridotto in questo stato, poi, non bisogna guardarsi le spalle solo dai mutati, ma anche dagli esseri umani: “homo homini lupus” è un detto che guadagna un ulteriore livello di verità quando l’unica regola di questo nuovo mondo è la sopravvivenza. Ed è proprio la natura cupa e spietata di questo mondo a giustificare qui, ciò che in Uncharted era diventato un po’ una barzelletta: il livello di violenza e di morte scatenato tra i nemici fa un po’ sorridere quando a compierlo è un simpatico tombarolo che si lascia dietro una scia di morte e distruzione (per mettere le mani su un ninnolo, poi!), tutt’altra cosa è quando le morti e le uccisioni compiute da Joel per proteggere Ellie, derivano dal bisogno primario di sopravvivere.

Tutto è più riflessivo in The Last of Us: l’esplorazione delle sue ambientazioni, spesso enormi, porta via il grosso del tempo e i combattimenti rappresentano, oltre a una necessità, quel giusto cambio di ritmo che ragala sprazzi d’adrenalina senza trasformare mai l’esperienza in una continua carneficina. E c’è tanto da riflettere in quest’avventura, perché buona parte del suo mondo è raccontata attraverso i documenti che si trovano in giro ma anche attraverso il modo, sopraffino, con cui sono state allestite le ambientazioni. Molte delle storie raccontate da questa gemma di Naughty Dog sono “indirette” e derivano da un’osservazione di quest’America devastata dall’apocalisse e riconquistata dalla natura. È inquietante passeggiare in una suburba e leggere i disperati messaggi di aiuto o di avvertimento dipinti sulle mure della case dagli ultimi cittadini che hanno provato a resistere agi infetti o ai razziatori. È straziante trovare i resti di una comunità che sembrava essere riuscita a ricreare uno scampolo di civiltà nei meandri di un condotto fognario, visitando un asilo ormai vuoto e degli ingegnosi sistemi di raccolta dell’acqua piovana in disuso. In linea generale è proprio nell’allestimento delle ambientazioni che i grafici meritano un sentito applauso: ogni singolo scenario riesce ad avere una sua personalità e a stupire nel suo, immancabile, degrado. In un genere come quello postapocalittico, dove di solito si vive solo di grigi e marroni, qui i colori non mancano e la cura con cui sono diversificate le città in rovina, le strutture fatiscenti, le comunità, i boschi e l’America tutta ha dell’incredibile. Insomma, i momenti mozzafiato non mancano, e non mancano per la cura certosina con cui tutto è stato realizzato, dagli oggetti di arredamento all’illuminazione, e non perché fanno parte di una scena tradizionale di un videogioco in cui si corre in un palazzo che crolla a causa dell’impatto di un jumbo jet tirato giù dall’ennesima invasione aliena. In The Last of Us, tutto è più misurato, credibile, coerente, maturo e in definitiva forse anche meno “divertente”, ma sicuramente più coinvolgente ed emozionante. Vista la caratura dell’avventura principale, che chiunque possieda la maggiore età e una PS3 dovrebbe vivere, risulta quasi del tutto accessoria la modalità multiplayer che vede sparacchiarsi le diverse fazioni. Un plus che, nel caso funzioni (al momento di scrivere questa recensione è presto per dirlo), farà felice chi non vuole tirare fuori il disco dalla console e nel caso che “invece no”, non andrà di certo ad intaccare questo grandioso affresco dipinto da Naughty Dog sull’America e la miserabile, ma anche sorprendente, natura umana.