Tafazzi era una simpaticissima macchietta del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo, ai tempi in cui questo terzetto non era ancora sinonimo di tristezza e vecchiaia. Nella fattispecie, il personaggio di Giacomo, vestito con una calzamaglia nera e accroccato con una vistosa cintura pubica, si colpiva ripetutamente all’inguine con una bottiglia di plastica, procurandosi dolore ma al tempo stesso ricavando piacere dall’atto. Negli anni Tafazzi è diventato il simbolo dell’autolesionismo, un’icona della tendenza sisifica dell’uomo (e della donna) a farsi del male per il puro gusto di soffrire. Che cosa ha a che vedere tutto questo con i videogiocatori? Semplice: noi siamo una specie strana, perché tutti pensano che passiamo ore e ore a divertirci, ma in realtà poche persone sanno che molte di queste ore sono passate a tribolare, in vista di una ricompensa mai fin troppo evidente. Non si spiegherebbero altrimenti fenomeni come il grinding nei MMORPG coreani, i simulatori di muletto e, ovviamente, i soulslike.
[quotesx]Il dramma di una mente gravemente danneggiata[/quotesx]Ho avuto modo di osservare uno strano episodio di tafazzismo videoludico proprio in questi giorni, con Hellblade: Senua’s Sacrifice, un gioco di grande pregio visivo a mio avviso, ma con degli evidenti problemi a livello di design… o forse no? Ebbene, è proprio questo il dilemma che mi attanaglia in questi giorni. Il gioco è stato presentato come una spettrale rappresentazione della follia e della malattia mentale, interpretata attraverso un impianto ludico di stampo fantasy. Secondo molti commentatori, le limitazioni del gioco, tra cui un combat system molto macchinoso, e la presenza di pochissimi pattern d’attacco dei nemici (un difetto grave in un gioco comunque action), non sarebbero delle mancanze, quanto piuttosto dei difetti voluti per rappresentare il dramma di una mente gravemente danneggiata. Ah, e non dimentichiamoci del “permadeath” (per quanto presente solo in casi estremi).
Ed è proprio qui che mi arrovello: fino a che punto lo sviluppatore può sacrificare il design sull’altare dello storytelling? E fino a che punto il consumatore può sentirsi legittimamente preso in giro di fronte a un gioco che tradisce uno dei patti più basilari del gaming, ossia la promessa di essere divertente? Ovviamente tutto questo è pensato dando per scontata la buona fede di Ninja Theory che, dopo il divertentissimo apocrifo DmC, dubito avrebbe concepito un combat system così povero come quello di Hellblade; le limitazioni di budget sono un’ipotesi che non avremo mai modo di confermare, e d’altronde il significato di un’opera trascende la sua genesi e il suo autore.
A mio avviso, se il videogioco vuole diventare una forma d’arte a tutti gli effetti, ammesso che lo voglia ovviamente, deve anche sconfiggere il tabù del divertimento. Il cinema del resto ha tantissimi momenti in cui usa il suo linguaggio per comunicarci delle sensazioni di fastidio, che ti fanno venire voglia di spegnere ma allo stesso tempo rendono alcune pellicole così memorabili. Probabilmente la Hollywood dei tempi di Ginger Rogers e Fred Astaire avrebbe inorridito di fronte all’idea che un film ti possa far soffrire, ma del resto con il Nosferatu di Murnau abbiamo scoperto molto presto il potere magico delle immagini sulla nostra psiche.
[quotedx]La banalità dei cinecomic[/quotedx]Mi viene da pensare alle dinamiche familiari di Melancholia, più imbarazzanti del nonno ubriaco che bestemmia al matrimonio (al finale neanche voglio pensarci perché sono ancora traumatizzato). E che dire del “body horror”, tipico del cinema di Aronofski? C’è davvero bisogno di mostrarci in primo piano l’ennesimo buco sul braccio in cancrena di Jared Leto in Requiem for a Dream, o le piaghe sui piedi di Nina nel Cigno Nero? La risposta probabilmente è sì, se l’autore vuole comunicarci aspetti della nostra vita che esistono, e che un artista ha il diritto e il dovere di raccontare, pena ridurre tutto alla banalità dei cinecomic.
Credo sia legittimo per una forma d’arte usare tutti i suoi strumenti e i suoi linguaggi per comunicare un’idea, anche quando questo significa mutilare la propria capacità espressiva, come avviene in Hellblade. A livello personale, preferirò sempre un gioco che fa finta di essere poco divertente, nascondendo in realtà un design sopraffino: è l’esempio dei giochi di Hidetaka Miyazaki, che a mio avviso trasmettono il “malessere” in maniera molto più elegante.
Ma tutto sommato Hellblade, furbetto o meno che sia stato, ha una sua dignità e una sua ragion d’essere. Che passa proprio attraverso il suo non essere divertente.