Quando un cineasta è anche un videogiocatore, un semplice tie-in può diventare un cavallo vincente. Ma va saputo domare. [Speciale]
Qui, se te la sei persa, la prima parte dello speciale.
Cosa mai avranno in comune due tipi agli antipodi come Vin Diesel e Peter Jackson? Nemmeno il cinema – condivisa passione e fonte di fama – basterebbe a rendere sufficientemente vicini un sagace energumeno di New York e uno “hobbit” (da questa definizione non si salva nemmeno ora, che ha perso millemila chili) cresciuto in Nuova Zelanda, tra maori e libri di fantasy. Entrambi, però, rispettivamente classe ’67 e ’61, appartengono alla generazione che per prima ha visto nascere e sviluppare il fenomeno videoludico, e sono fra quelli che la passione per i videogame se la sono portata appresso, anche dopo aver individuato la propria strada professionale ed espressiva. In effetti, i due coltivano l’amore per le esperienze interattive al punto da impegnarsi in prima persona, affiancando talentuose software house o fondandone di nuove per inseguire la propria vocazione “secondaria”. Ovviamente, però, per aprire orizzonti così ambiziosi servono diverse condizioni, economiche e “incidentali”, che solo due star come Diesel e Jackson possono presentare allo stesso momento: ci vuole un videogame ispirato a film diretti o interpretati, così da scatenare una volta per tutte la pulsione creativa lungamente “repressa”; ma serve anche tanto, tantissimo denaro, perché lo sviluppo di prodotti videoludici (tecnologicamente) complessi non può far a meno di generosi e lauti investimenti.
La prima condizione lo scattante Vin l’ha incontrata con The Chronicles of Riddick: Escape from Butcher Bay (2004), ad oggi uno dei migliori action game ispirati a un universo cinematografico, se non il migliore in assoluto. Il merito principale della riuscita del gioco (un ottimo FPS con moderate vocazioni stealth ed RPG) non può che andare a Starbreeze Studios, che il titolo se l’è sudato fino in fondo. Ma fondamentale è stato anche l’intervento della casa di produzione Tigon Studios, fondata dallo stesso Diesel nel 2002, a vigilare affinché Escape from Buther Bay non diventasse la solita poltiglia di azione generica e facili rimandi ai film, sotto la pressione della major cinematografica di turno. Certo, il gameplay è un po’ più semplice, rispetto alle ambizioni “ruolistiche” di Starbreeze, ma questa volta il mix è riuscito con il contributo di tutti, compresi il regista, gli sceneggiatori e l’interprete principale del film.
Il videogame, esattamente come il sequel-remake Assault on Dark Athena, contribuisce a rendere imperdibile una saga che ha saputo passare disinvoltamente da un medium all’altro, fra un “prologo” cinematografico (Pitch Black) e tre opere affidate a videogame e cartoni animati (con il godibile Dark Fury), per poi ricongiungersi narrativamente all’ultimo film della serie. In questo caso, oltretutto, non c’è nemmeno da scomodare ascendenze culturali particolarmente raffinate, perché il soggetto pesca senza remore tra i fumetti e il cinema più popolare, senza per questo dimenticare le suggestioni letterarie che hanno attraversato i prodotti della cultura di massa. Anche Richard B. Riddick, in fondo, nasconde fra i suoi burberi tratti alcune caratteristiche di Conan il barbaro, in particolare nella fierezza etnica (i “Furiani”, in effetti, sembrano una versione sci-fi dei “Cimmeri”) e nel ruolo riservatogli dalla sorte, come sovrano di un regno straniero e sconfinato.
Purtroppo, però, al momento in ambito videoludico il destino di Diesel non sembra luminoso come quello del suo personaggio più famoso: con Wheelman, la partership di Tigon Studios con gli sviluppatori di Midway ha portato a risultati molto meno convincenti, forse anche a causa di un eccesso di protagonismo da parte dell’attore, e i progetti futuri non sono certo interessanti come lo sono stati i giochi costruiti sul personaggio di Riddick.
Ciò non toglie che, al momento, non esiste il volto di un interprete che possa essere associato a un videogame evocando ricordi altrettanto gradevoli. E i videogiochi piacciono pure a Daniel Craig, ad esempio, a dimostrazione di quanto la passione di una star non sia sufficiente a trasformare un tie-in in qualcosa di più di un semplice accessorio. E poi, evidentemente, Riddick sa ottenere risposte molto più velocemente di 007…
Anche Peter Jackson, che ci ostiniamo a ricordare più paffuto e orgogliosamente “nerd”, ha fondato nel 2006 la sua casa di produzione di videogiochi, ovvero la Wingnut Interactive, nata da una collaborazione tra il regista e Microsoft sulla base di alcuni progetti per la saga di Halo. Apparentemente, davanti al fondatore di una delle migliori case di produzione di effetti digitali cinematografici, la Weta Digital (i suoi processori sono anche serviti per elaborare, fotogramma per fotogramma, le immagini di Avatar), la mossa sembra logica e persino scontata. Nella sostanza, invece, i passi della compagnia sono stati così leggeri da non lasciare alcuna traccia dal giorno della fondazione, così come non vi è traccia dello sviluppo dei suddetti videogame griffati Halo (neanche del paventato film, d’altronde), cancellati o rimandati in modo fumoso e impreciso. E pensare che avevamo immaginato Peter Jackson simile a un George Lucas del futuro, pronto a dare ossigeno creativo ai suoi prodi come il creatore di Star Wars aveva fatto con Lucasarts, prima di abbracciare una politica meno attenta alla qualità dei singoli prodotti (cinema compreso).
La prima sortita del regista neozelandese nell’industria dei videogiochi, però, è stata più che positiva: la collaborazione con lo sviluppatore Marcel Ancel, che Jackson ha scelto dopo aver giocato a Beyond Good & Evil (quindi sulla base dei propri gusti da incallito giocatore, cosa di per sé singolare), ha trasformato un potenziale polpettone come il tie-in di King Kong in un videogame dalle caratteristiche molto interessanti, capaci di insegnare parecchio a chi si accinge alla pratica della trasposizione videoludica di un film. In particolare, vista la lontananza tra il gameplay di PJ’s King Kong e altre creazioni di Ancel, è evidente come sia stato il regista a indicare le linee guida per la struttura del gioco, in modo che si avvicinasse il più possibile alla propria idea di cinema interattivo, ben più estrema e “immersiva” di quella di altri cineasti come Spielberg e Cameron. Il protagonista è avvolto da una soggettiva più rigorosa rispetto ad altri FPS, senza indicatori, mirino e mappa per gli obiettivi, lasciando finalmente a un tie-in la libertà di proporre uno sguardo alternativo e complementare al film, senza svilire nessuno dei due medium. Non si vede mai la faccia del protagonista Adrien Brody (o meglio, la nuca), ma in compenso possiamo scorrazzare con armi di fortuna sulla celebre isola di King Kong, in mezzo a dinosauri e indigeni ostili, guardando l’ambient
e con i nostri occhi e sperimentando l’effetto di un Thompson sul muso di un Tirannosauro. Che è sempre un bel regalo da fare a un videogiocatore.
L’anima in terza persona di PJ’s King Kong è meno efficace, anche se dà modo di guidare il leggendario gorilla gigante, perché nonostante la buona fattura ricorda da vicino le soluzioni di altri tie-in, in cui l’azione meccanica ha il sopravvento sul processo di immersione. In qualche modo, però, questo tipo di approccio ci aiuta a introdurre altri autori cinematografici, come i fratelli Larry e Andy Wachowski, che avrebbero potuto guidare questa rassegna ma si sono dovuti accontentare di traguardi molto più modesti (al contrario di quanto è accaduto con gli episodi a cartoni animati di Animatrix, tutti di pregevole fattura). La saga di Matrix non è mai riuscita a dimostrare nulla di positivo in termini strettamente videoludici, al di là di una buona capacità d’incasso sulla scia del film, nonostante il legame profondo con le tematiche dell’elettronica e del digitale. Anche in questo caso, i progetti sono stati affidati a un team di sviluppo di buona fama, Shiny Entertainment di David “MDK” Perry, ma i risultati finali si sono rivelati quanto di più scontato si possa pensare, per trasporre un film con il minimo sforzo creativo e il massimo dell’impegno promozionale.
La scarsa qualità di Enter the Matrix e Path of Neo, due tritatutto piatti e senza anima, si può ascrivere in pari misura al team di sviluppo e agli stessi Wachowski, incapaci di influenzarsi vicendevolmente per sfruttare le caratteristiche più intriganti del soggetto, come l’intrecciarsi di piani di realtà illusori e concreti. Paradossalmente, invece, ad incontrarsi sono stati due gruppi di creativi in rapido declino, visto che né Shiny né i Wachowski sono riusciti a raggiungere nelle opere successive le vette espressive degli esordi.
Nemmeno Monolith Producion è riuscita a risollevare l’appeal videoludico della serie, con lo sviluppo del MMORPG The Matrix Online, andando a rinsaldare le ragioni di chi sostiene che i marchi “nativi” del videoludo siano i soli in grado di fare i grandi numeri, nel genere massivo come altrove.
E adesso tocca a Bioware scontrarsi con il potente Cataclisma di Blizzard, tenendo alta la bandiera di un’altra saga cinematografica, sicuramente la più famosa in assoluto, che è già costata il buon nome di diversi sviluppatori, non ultimi quelli di un certo Galaxies. Non serve aggiungere altro, vero?