Videogiochi e Cinema #3 – La valle tra la Settima e l'Ottava Arte

La libertà espressiva come veicolo per l’eccellenza, anche quando i personaggi odorano di celluloide. [Speciale]

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Non è poi così difficile indicare soluzioni che sublimino, una volta tanto, il rapporto fra cinema e videogame. Molto spesso, quando agli sviluppatori è stata offerta la possibilità di confrontarsi con un brand cinematografico (lontano però dalla formula del tie-in) i risultati sono stati ai limiti dell’eccellenza. Anche lo stesso Tron, a cui è stato oggi dedicato un revival a cavallo fra settima arte, videogame e fumetti, ha avuto nel 2003 un sequel esclusivamente videoludico che, se non può essere considerato un gioco di livello assoluto, sicuramente ha portato temporanea freschezza nell’approcciare in un’esperienza interattiva un film di successo. Stiamo ovviamente parlando di Tron 2.0 di Monolith, un FPS divertente e vario che ha avuto la sola “sfortuna” (si fa per dire) di uscire nell’epoca d’oro degli sparatutto in prima persona, a competere con pezzi da novanta sulla base di un film non universalmente conosciuto dalle nuove generazioni. Detto questo, il titolo usa lo scenario “simil-digitale” della pellicola in modo intelligente, specie sotto il profilo tecnologico, al punto che persino oggi l’impianto grafico può essere apprezzato dai videogiocatori a quasi otto anni dall’uscita. Questo, ovviamente, dipende da uno stile visivo che non ha bisogno di modelli dettagliati e soluzioni foto-realistiche. Per quel che ci riguarda, però, è ancora più interessante notare la contemporanea presenza di nuove abilità a disposizione del personaggio, a sancire con orgoglio la natura videoludica del prodotto, accanto ai tratti caratteristici di armi, strumenti e personaggi del film del 1982, con particolare riferimento all’uso del I-Disk e delle celebri Light-Cycle (declinate in questo caso in modo classico, potendo curvare solo a 90°). Alla fine, però, Tron 2.0 non ha avuto il successo commerciale sperato, e sapete bene quanto questo aspetto sia fondamentale per la progettazione di ulteriori sviluppi della saga, all’epoca già pronta a un’eventuale versione 3.0.

Anche se non sembra così evidente, Batman Arkham Asylum è un altro titolo valido per la tesi esposta poco sopra. Certo, il personaggio rimane ancora fortemente legato – com’è giusto che sia – alla lunga militanza sulle pagine a fumetti, ma indubbiamente è il cinema ad aver mosso fin dalla fine degli anni ’90 cifre decisamente importanti intorno al cupo vigilante, grazie alla reinterpretazione filmica di geni come Tim Burton e Christopher Nolan (ci permettete di sorvolare sui capitoli diretti da Joel Joel Schumacher, vero?). La visione di questi registi, d’altronde, è stata “umile” e attenta nei confronti dello stesso mondo dei comics, che pochi anni prima aveva generato opere di fondamentale importanza per uno sguardo moderno sul personaggio, come Il Cavaliere Oscuro di Frank Miller, Batman The Killing Joke di Alan Moore e non ultimo Arkham Asylum di Morrison e McKean, da cui ha attinto anche Rocksteady Studios per la sua omonima trasposizione videoludica. In effetti, “umiltà” dovrebbe essere usata come parola d’ordine, quando si affrontano personaggi o background con un passato glorioso: Batman Arkham Asylum usa contemporaneamente gli stilemi degli action game, con particolare attenzione a stealth e picchiaduro, e le tematiche più interessanti proposte da cinema e comics, come una connotazione psichiatrica “estrema” non solo per i nemici dell’uomo pipistrello, ma anche per il travagliato eroe dalla doppia personalità.
A questo si uniscono le inquadrature dal taglio cinematografico, che però usano con efficacia il lungo indugiare della visuale di un videogioco sul protagonista, aggiungendo dettagli sfiziosi e dinamici come una barba in crescita o le ammaccature del costume; oppure, le idee di sceneggiatura fanno entrare il giocatore nel corpo di un piccolo Bruce Wayne, per vivere la sua immane tragedia infantile, o anche nei colorati panni del Joker, cosa possibile solo in un’opera interattiva di largo respiro come quella di Rocksteady.

Parlando di successi “trans-mediatici”, capaci ci passare disinvoltamente attraverso diverse forme di comunicazione visiva, è impossibile non citare il brand di AlienVSPredator. Anche in questo caso si può rintracciare un’origine formale negli albi a fumetti, attraverso una serie iniziata nel 1991. È altresì anche noto come le due bestiacce aliene, dalle caratteristiche praticamente antitetiche, siano figlie delle saghe cinematografiche che portano i rispettivi nomi. Quando Rebellion ha sviluppato il primo titolo in soggettiva marchiato AvsP (prima di questo esistono diverse interpretazioni bidimensionali, rigorosamente arcade) ha dunque dovuto tener presente le suggestioni evocate dalle varie pellicole, proprio perché erano le uniche capaci di coinvolgere i sensi dello spettatore/giocatore sotto il profilo sonoro e visivo. Per le avventure dei marine e le scorribande degli xenomorfi, ad esempio, le indicazioni più importanti sono senz’altro arrivate dal secondo film della serie su Alien, diretto da James Cameron, che ha dato l’ispirazione non solo in termini d’atmosfera ma anche per quel che riguarda le armi a disposizione degli umani e le movenze della forma di vita parassitaria disegnata da H.R.Giger (qualsiasi inquadratura ravvicinata alla testa di Alien, però, è debitrice del leggendario primo film di Ridley Scott). E il discorso è ancora più vero per il Predator, anche se il punto di riferimento cinematografico è meno interessante in termini squisitamente “artistici”, dal momento che il fiero cacciatore dello spazio sembra essere nato con il pallino dei videogame, pieno di armi carismatiche e sistemi di puntamento avveniristici, come se fosse stato pensato dalla testa di un game designer. La saga di AvsP, inoltre, è un oggetto strano per la strada sostanzialmente autonoma intrapresa dalle varie opere, a prescindere dal medium, visto che persino i plot dei film usciti fino a oggi sono lontani dalle sceneggiature di fumetti e videogame. Persino l’ultima incarnazione videoludica, per quanto sembri la trasposizione della prima graphic novel (gli scontri avvengono sul pianeta sacro dei Predator, usato per la caccia rituale agli alieni), si mescola con le invenzioni di alcuni fumetti e del film Alien: la clonazione, in cui viene mostrata la ricerca genetica sugli xenomorfi a opera della luciferina Yutani-Corporation. Fatalmente,
quest’ultimo capitolo si è dimostrato inferiore a tutti i precedenti episodi, di Monolith o degli stessi Rebellion, ma resta comunque un prodotto superiore ai “canonici” tie-in che invadono il mercato ogni volta che esce un blockbuster fantasy o sci-fi.

È interessante notare quanto le produzioni di una major a cavallo tra cinema e videogiochi, come LucasArts, siano in grado di confermare e smentire, allo stesso tempo, l’analisi fatta fin qui. Non ci dilungheremo molto su questo punto, più che altro perché si tratta di una materia sconfinata tanto da meritare – se ci sarà l’occasione – uno speciale tutto per sé. Senza scomodare vecchie glorie da retrogaming come X-Wing o Dark Force, basta guardare a The Force Unleashed e Knights of the Old Republic per capire quanto possono essere lontani i risultati qualitativi dei titoli ispirati a Star Wars, pur tenendo le distanze dai film sotto il profilo narrativo. E poco importa che si parli di un action game o di un RPG, perché alla fine siamo convinti che ogni genere possa dire la sua fino a diventare un capolavoro, se ne ha la stoffa. In questo caso, semplicemente, le capacità di Bioware e Obsidian si sono dimostrate superiori, non solo in termini di gameplay ma anche per la scelta di ambientare il gioco in un territorio contiguo rispetto ai sei film della saga, ancora prima delle vicende narrate degli ultimi controversi “Episodi”, in modo da non dover troppo giustificare le scelte per la trama e i personaggi (ma sempre con l’approvazione di Lucas, s’intende).

Per chiudere questo ciclo di tre puntate su cinema e videogiochi, però, torniamo sui tie-in veri e propri, o meglio su quelli che hanno cercato di ottenere risultati di buon livello motivando i team di sviluppo e fornendo loro budget vicini a un “tripla A”. Alla fine, anche due esempi validi come Avatar e Tron Evolution sono risultati “solo” videogame discreti, a dimostrazione di come le richieste dei committenti e i rigidi tempi di sviluppo siano i veri nemici di una trasposizione di alto livello. E ciò non dipende nemmeno dal pedigree degli sviluppatori: in effetti, se il team dietro al tie-in di Tron Legacy non è certo il più amato dai videogiocatori (di Propaganda, in effetti, ricordiamo solo il mediocre remake di Turok), nemmeno Ubisoft Montreal è riuscita a far diventare la versione videoludica di Avatar un titolo imperdibile, al di là del gradimento di ogni singolo giocatore per la pellicola, in effetti un po’ deludente rispetto alle aspettative.
Qualche volta, però, opere con questo livello qualitativo possono riuscire a soddisfare i palati dei videogiocatori, a patto che si ami in modo particolare l’universo fantastico di riferimento. Per terminare con una considerazione esclusivamente personale, ciò che ho appena scritto corrisponde perfettamente ai miei pensieri una volta messe le mani su Terminator Salvation: proprio perché la pellicola non mi aveva soddisfatto, ho sperato che il pedigree di Grin portasse finalmente a un’appropriata rappresentazione della guerra tra uomini e macchine evocata da Cameron, a sua volta liberamente ispirata al racconto di P.K.Dick SecondVariety (uhm… che strano, questo nome l’ho già sentito). Ma, com’è noto ormai a tutti, le cose non sono andate in questo modo, e sono ancora lì che piango lacrime di pixel e celluloide.