Il cinepanettone è una vera e propria istituzione nel nostro Paese. Volenti o nolenti. Sono i numeri a parlare, con incassi troppo alti per ignorare il fenomeno a prescindere e non considerare ogni sua uscita nelle sale un piccolo esperimento sociale, che ci conduce alla domanda: perché gli italiani continuano a guardare questi film? Facendo profonda autocritica, siamo costretti ad ammetterlo: chi, nel profondo, non ha mai provato un pizzico d’orgoglio, di fronte alla sguaiata italianità delle maschere comiche trash per eccellenza, Massimo Boldi e Christian De Sica? Insomma, il cinepanettone fa parte della nostra cultura popolare e, se non può avere una sua rispettabilità, può avere quanto meno una sua dignità. Tuttavia, i tempi del dinamico duo del pecoreccio sono andati, e Vacanze ai Caraibi è il frutto di un degrado e di una mancanza di idee che è ben più criminosa dell’intrinseco squallore del format, andando a tradire gli stessi principi di questo “genere”. Del resto, siamo in tempi di crisi, e anche il cinepanettone ne ha risentito, con una produzione ridotta veramente all’osso nello sfarzo, nelle trovate e nell’intreccio, e una povertà generale che ha dell’imbarazzante, soprattutto per un tipo di film che aveva fatto suo il “sogno italiano” della medio-borghesia. Il cinepanettone post-spending review non solo è insopportabilmente noioso e per niente divertente, ma non riesce nemmeno a evocare quell’atmosfera edonistica e boccaccesca che, seppur esecrabile, aveva fatto la fortuna di piccoli cult come Vacanze di Natale. Un’operazione low-cost che lascia insoddisfatti e amareggiati, e che ha il sapore del raggiro: la produzione deve essersi evidentemente resa conto che c’era un’ampia fetta di mercato per questo tipo di prodotti, e ha deciso di massimizzare i profitti mettendo su un carrozzone con il minimo dispendio. Incredibile a tal proposito la presenza massiccia del product placement, con un noto tour operator presente in maniera tanto ingombrante nell’inquadratura da sembrare quasi uno scherzo… peccato che non lo sia. Ovviamente per tacere del fatto che il film sia finanziato con fondi pubblici.
La recitazione è ai minimi storici, tanto da far sospettare che ogni scena sia stata approvata con un entusiastico “buona la prima”. Persino De Sica, da sempre la figura meno inaccettabile in queste pellicole, non fa che proporre una patetica e svogliata imitazione di se stesso. Ben misero il pantheon di comici, solitamente punto di forza del genere, e qui ridotto al duo De Sica/Ghini e al novello Tom Hanks in Cast Away, interpretato da Dario Bandiera. Il film è diviso in tre episodi: il primo ha per protagonista, appunto, De Sica, un ingegnere caduto in rovina che caldeggia il matrimonio della figlia con l’ossigenato Ghini, uno spiantato che si spaccia per miliardario e a sua volta spera di poter risanare le proprie finanze. Il secondo ha per protagonisti Luca Argentero e Ilaria Spada, conosciutisi in crociera e diversissimi, ma travolti da un’irresistibile attrazione fisica. L’ultimo è incentrato su Dario Bandiera, un fanatico della tecnologia finito su un’isola deserta. Il meno peggio è, poco sorprendentemente, l’episodio con De Sica (e rimane comunque ai limiti dell’insostenibile). Quello con Argentero è sostanzialmente la stessa gag che si ripete troppo a lungo, con i due amanti che si saltano addosso in ogni situazione con un inspiegabile effetto cartoon; e del resto i contenuti pruriginosi, fatta eccezione per un capezzolo, sono ormai latitanti in questi film.
Ma il fondo si tocca indubbiamente con Bandiera, con momenti in grado di far provare un fastidiosissimo imbarazzo empatico. Perché qualcuno abbia ritenuto divertente mostrare Bandiera che si costruisce un finto computer di pietra va oltre la nostra comprensione. In una scena lo vediamo fingersi commesso e parlare da solo, mentre cerca di vendersi l’“iStone” o il “Sassung”, finti telefoni di pietra… [quotedx]Un’operazione low-cost che lascia insoddisfatti e amareggiati, e che ha il sapore del raggiro[/quotedx]Ma questo è grande cinema rispetto alla scena in cui vediamo copulare dei pappagalli, per non parlare di quando De Sica e Ghini rimangono chiusi in un cofano dopo aver mangiato una torta ai fagioli, a cui fanno seguito le flatulenze di rito. Aggiungete una spruzzata di battute sugli omosessuali, che ci riportano dritti all’età della pietra, e avrete un’idea del quadro completo. Ebbene sì, per citare Han Solo: “È tutto vero”. Questo è il livello di puerilità, ed è bene che lo sappiate, affinché non vi passi neanche per l’anticamera del cervello di vedere questo film: speriamo che il nostro sacrificio salvi almeno voi dalla visione. Le gag sono praticamente inesistenti, e non c’è nemmeno traccia della trama da commedia plautina prerogativa dei capisaldi del genere. Le classiche “corna” non sono da nessuna parte, togliendo ulteriormente sale a una formula vecchia ed eseguita con sciatteria e pigrizia. C’era un tempo in cui questi film riuscivano a far sognare gli spettatori, un po’ come le commedie americane. Ma era un altro periodo: erano i favolosi anni ’80 e, forse, dobbiamo constatare che la decadenza di questi film coincide amaramente con quella del nostro Paese. Vacanze ai Caraibi è un’esperienza surreale, che ci ha fatto sentire come René Ferretti nel film di Boris quando guarda Natale al Polo Nord, circondato dalle risate del pubblico, in uno strano caso di arte che imita la vita. Uno spettacolo deprimente e che, questa è la cosa più triste, probabilmente sarà premiato dal botteghino. Il nostro consiglio? Fate la cosa giusta: non supportate questo genere di film. Farete il vostro bene e anche quello del cinema. Garantito.