The Pills – Sempre meglio che lavorare – Recensione

Il passaggio da un medium all’altro è una pratica che negli ultimi anni sta colpendo moltissime attività di intrattenimento. Qualcuno pensa di poter realizzare un’operazione transmediale, qualcun altro ammette di voler soltanto cavalcare l’onda del proprio successo cercando di avere successo anche in un campo che fino ad allora non ha propriamente esplorato. Non sempre l’esperimento ha successo, d’altronde lo ha dimostrato anche Game Therapy, che ha portato, probabilmente non come principale conseguenza, Federico Clapis a interrompere la propria attività sul web, e Favij sicuramente a porsi qualche domanda sulle sue reali capacità cinematografiche. Dal web al cinema, insomma, non è un passaggio semplice, non ci si inventa star universali e assolute, ma tentarci, indubbiamente, non nuoce: ci hanno provato, quindi, anche i The Pills, trio romano che dal 2011 conquista YouTube con produzioni attoriali di ottima fattura, con comicità capitolina e affrontando quelle che sono le problematiche della nostra generazione, dal precariato al lavoro fino alla voglia di restare sempre giovani.

The Pills - Sempre Meglio Che Lavorare

Sempre meglio che lavorare è il film d’esordio al cinema del trio composto da Luca Vecchi, Luigi Di Capua e Matteo Corradini, che mantengono i loro nomi veri nel film, un po’ come d’altronde facevano Aldo, Giovanni e Giacomo. Ma questa è l’unico aspetto che accomuna i due trio, perché per il resto sono tante le domande che dovremmo porre a chi ha deciso di produrre tale pellicola, cioé Pietro Valsecchi. Dopo aver lanciato sul grande schermo I soliti idioti e Checco Zalone, col quale sta realizzando un capolavoro storico per il cinema italiano, il produttore cremonese raccogliere l’onere di portare i The Pills a raccontare le loro vicende a una platea più ampia, anche più borghese, più navigata, perché il cinema, è risaputo, è sì per i giovani, ma anche per chi, curioso, vuole a volte godersi qualche novità del nostro Paese. Questa curiosità però non sarà premiata, perché nonostante il giustificato successo ottenuto sul web, Luca Vecchi, che si veste da regista della pellicola, non riesce a replicare il successo che YouTube ha donato ai tre scanzonati e sboccati ragazzi romani. Sempre meglio che lavorare è un’accozzaglia, nell’accezione più negativa che esiste per il termine stesso, di sketch alla rinfusa, che quasi fa pensare a un metodo narrativo intervallato, con due fasi temporali che si alternano utilizzando dei flashback: il risultato è che la trama orizzontale perde assolutamente consistenza e con tanta difficoltà si arriva a comprendere quello che è il senso vero e proprio dello script. Il non voler lavorare, la paura di invecchiare. Un tema che in Italia, oramai, è talmente tanto saturo che trattarlo anche nel modo più originale possibile non dà soddisfazione: il precariato sarà anche un argomento naturalista, col quale molti letterati sarebbero andati a nozze, ma ha iniziato a produrre le prime noie del tempo. L’idea di fondo dei The Pills, inoltre, è molto scoordinata, condita e rimpinguata da battute che non riescono a far ridere, situazioni temporali che non offrono divertimento e che annoiano all’ennesima parabola sulla proposta lavorativa, capace anche di rovinare un rapporto di coppia nato a una festa e che in pochissimi minuti si trasforma in un successo ancestrale e sentimentale.

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Qualcuno potrebbe pensare a questo film come un mash up di tutti i video realizzati su YouTube, di tutti gli sketch realizzati e che hanno avuto successo, come d’altronde decisero di fare Aldo, Giovanni e Giacomo in Tre uomini e una gamba, con la differenza che Luca Vecchi propone sullo schermo tutti gli sketch non riusciti, incollati alla rinfusa: mentre è proprio lui che cerca lavoro in una bangla, che palesa tra l’altro il limite della loro comicità che nasce e muore nell’utilizzare stereotipi della provincia romana, si passa al rifiuto di un kebbabaro al servire un’insalata a Luigi, che alterna la sua performance al voler tornare bambino per occupare le scuole e al voler mangiare sano rifiutandosi di mangiare perennemente fuori: in successione le due scene lasciano basito lo spettatore, che non coglie la connessione tra questi aspetti. Altrettanto incomprensibile è il padre di Matteo, che strappa qualche risata per il suo aver scoperto Berlino in tarda età, dissotterrando uno stereotipo che apparteneva ai ragazzi degli anni ’90: il matusa, però, al di là di questo si ritrova all’interno della storia senza alcun preciso motivo, senza offrire nessuna soluzione di sorta al figlio, in cerca di un’epifania che possa spingerlo verso un orizzonte più aulico. È tutto sedimentato sotto un’approssimazione di contenuti e un’offerta spicciola a livello narrativo che lascia anche dei buchi disseminati qui e lì: è il caso di Luigi, che dopo aver già esaltato la necessità di mangiare sano, della quale poi si dimenticherà già nella scena successiva, trova la forza e il coraggio di sostenere tre colloqui di lavoro. La sfida è quella di farlo lavorare e testare la sua durata in quell’azienda: punta la sveglia alle 7:30 del mattino successivo, indossa un vestito e si reca a lavoro, ma per strada incontra un diversivo e del lavoro non si parla più nel resto della pellicola. Anzi, si parte per l’impronunciabile Milano, ma non prima di aver convinto Matteo ad abbandonare il tavolo di scopa e gioire del suo successo baciando un’anziana groupie. Ribadisco, un’accozzaglia di elementi che non forniscono una linea orizzontale che possa far apprezzare il film.

[quotedx]Luca Vecchi propone sullo schermo tutti gli sketch non riusciti, incollati alla rinfusa[/quotedx]

Quello che però va dato ai The Pills è la capacità di lavorare con la fotografia, con le riprese: i movimenti di camera si lasciano apprezzare, soprattutto le inquadrature, così come l’ironia parodistica proposta a più riprese, che porta a tantissime citazioni di altri capolavori, da Batman, con Giancarlo Esposito nei panni di mentore bangladeshano, ai western più classici, senza dimenticare lo stile di Tarantino, più volte riproposto. La scelta dei colori, l’intervallarsi del bianco e nero al colore, che delimita il loro mondo con il mondo esterno è un piacevole risultato cromatico, che sottolinea la bontà filosofia del trio, che qualcosa da dire ce l’ha, ma manca loro il modo giusto per dirlo. Quel modo giusto era il web, perché lì hanno riscontrato un successo importante, anche in quelle produzioni che potevano essere benissimo definite cortometraggi, anche quelli che duravano di più, che spiegavano le storie d’amore più intricate, che raccontavano di stupri e soprusi a modo loro: quando è arrivato il momento di compiere un passo più lungo, invece, i The Pills sono caduti, mantenendo le tecniche apprezzabili di regia e di fotografia, ma perdendo la capacità di scrittura e di resistenza sul lungo periodo. Sempre meglio che lavorare resta un primo esperimento non riuscito, al quale speriamo possa seguire una grande fase di valutazione prima di rigettarsi in una nuova prova. L’ondivago progetto degli youtubers è tale, è inconsistente dal punto di vista narrativo, vincente per la la proposta visiva, grintoso, ma non abbastanza soddisfacente. La strada che dal web porta al cinema è ancora una volta rischiosa, ancora una volta ha messo in difficoltà gli interpreti, che si tratti di Maccio Capatonda, che si tratti di Federico Claip & Favij, che si tratti ora di The Pills.