In attesa dell’anno nuovo, scopriamo in cosa è stato occupato Will Smith dopo Suicide Squad. In Collateral Beauty, diretto dal regista premio Oscar David Frankel, lo vediamo ancora guidare un ensemble cast, composto da Edward Norton, Michael Peña, i premi Oscar Kate Winslet e Helen Mirren, e altri. Purtroppo al posto di Margot Robbie c’è Keira Knightley. Smith interpreta una parte a noi familiare, il genitore afflitto. Stavolta però non è un mercenario con migliaia di vittime alle spalle e un rapporto difficile con la figlia. È un padre che la figlia di soli sei anni l’ha persa. Creativo del marketing divorziato di nome Howard, ha fondato un’agenzia pubblicitaria a New York e ne gestisce le relazioni con importanti clienti. Prima della tragedia era un tipo dinamico, carismatico. Adesso ha voltato le spalle al mondo(!). Tre suoi colleghi (Norton, Winslet e Peña), che sono anche i migliori amici, sono preoccupati. Howard non vuole saperne di firmare certe carte per un affare. Allora ideano un piano inutilmente complesso. Che vuoi farci, sono pubblicitari. Sono fatti così.
Howard ha scritto e imbucato tre lettere. A Morte, Tempo e Amore. Loro lo scoprono e pensano: “Perfetto, è pazzo”. Ora devono solo provarlo. Ingaggiano Helen Mirren e la sua trina compagnia teatrale per interpretare le suddette astrazioni. La Mirren, anziana signora dai capelli argentati, sarà la Vecchia Signora. La Knightley, mento sporgente e visino slavato, l’Amore. Un adoncino nero (Jacob Latimore) sarà invece il Tempo. Gli attori raggiungono Howard mentre se ne sta per i fatti suoi, per strada o mentre mangia, e vomitano luoghi comuni sull’importanza di ogni minuto, della naturalità della morte e così via. Lui non può che reagire esasperato. Il guaio è che viene ripreso col telefonino. Nei video, poi, gli attori spariranno (non viene detto come), in modo da far sembrare che il poveraccio abbia le visioni e ci parli pure. Insomma, una cosa crudele e sterile come solo la pubblicità sa essere. Intanto il film si concentra sulle disastrate vite degli amici, giusto per farceli apparire un po’ meno cattivi. Invano. In un suo maldestro modo la strategia andrà a buon fine, ma solo perché Howard, isolato dal mondo, si rivolge al più classico dei gruppi di sostegno. Tutor carina e paziente annessa. Sotto la fitta coltre di cliché, è davvero arduo provare empatia per i protagonisti, nonostante gli (scarsi) sforzi del cast. Tanto per cominciare, parliamo di pubblicitari. Gente che in generale consideri il male assoluto. Che per giunta appaiono finti, alieni, costipati in particine anonime. Gli stereotipi, poi, ci sono davvero tutti. Non ho nemmeno bisogno di elencarli. Nominatene uno. In Collateral Beauty c’è. Frankel non è Renoir, e del suo ensemble rimangono figurine. Kate Winslet è la classica donna in carriera. Non ha avuto il tempo di costruire una famiglia e quindi il browser in ufficio è sempre aperto sul sito dei donatori di seme. E da quando viene orchestrato l’odioso piano ai danni di Howard, è lei a ripetere “non riesco a credere che lo stiamo facendo”. Kate, nemmeno io.
Ma con la donna sola è facile, dai. Prendiamo un personaggio più complesso: il padre divorziato di Norton. Con determinazione d’intenti esasperante, il personaggio è stato dotato di tutti, ma proprio tutti gli attributi del caso: la figlia vive con l’ex moglie, è adorabile, quasi-adolescente, la risposta pronta, il compagno della madre è ricco e amico di Steve McAlvy. Il famoso lanciatore. Ah, e il weekend della natività se lo fanno alle Bahamas. E Michael Peña? Con lui, pensiamo, non avranno drammatizzato tanto: è già messicano. E invece ha il cancro. Che gli è venuto poco prima della nascita del figlio. La premessa di Collateral Beauty è quindi al contempo banale e improbabile, uno stiracchiato stereotipo. Da un certo momento in poi il film è solo un susseguirsi sfibrante di discorsi motivazionali e scene strappalacrime. Il racconto di una tragedia totalizzante come la perdita di un figlio diventa così stucchevole, una ruffiana ricerca dell’occhio rosso di pianto fra le palpebre del pubblico.
[quotedx]La premessa è al contempo banale e improbabile, uno stiracchiato stereotipo[/quotedx]
La morte di un figlio arriva inaspettata, in un momento della vita in cui si comincia a tirare le somme. I pilastri sono famiglia e lavoro e, se uno di questi crolla, il resto si sgretola. Ci accorgiamo che, sebbene devastati, continuiamo a sopravvivere, resilienti. Morale: bisogna scoprire che “tutto è connesso”, tirar fuori la “bellezza collaterale” presente in ogni cosa e distogliere lo sguardo dal proprio dolore smettendo di rifiutarlo. And so on. Ma da un film come Collateral Beauty, dal cast stellare, ci aspettiamo che tutto ciò emerga discretamente. Altrimenti tanto valeva guardare La stanza del figlio di Nanni Moretti. Durante la visione veniamo bombardati di luoghi comuni, senza che ci venga fornito un antidoto. Nessuna bellezza collaterale. Tanto meno una ragione per starsene due ore a sorbirsi smorfie, dialoghi stantii, errori di sceneggiatura, regia anonima. A meno che non abbiate una gran voglia di piangere. Allora andate e disperate senza ritegno nel buio della sala. Quando uscite, però, asciugate le lacrime e non dite che è un bel film. Se c’è qualcosa di collateralmente bello, è solo in quelle brevi rabbiose lettere scritte da Howard, spedite a nessun altro che al proprio dolore. Forse era meglio lasciarle nel cassetto insieme al copione.