The OA è la migliore soap opera in circolazione

Pochi finali di stagione sono stati divisivi come quello di The OA, la nuova serie originale Netflix creata da Brit Marling e Zal Batmanglij. A cominciare dal fatto che non si sa se sperare in una nuova stagione o accontentarsi del mal di testa che ci ha dato la prima. Sulla rete possiamo leggere di chi, scosso nell’animo, ha gridato al miracolo. E di chi, disgustato, avrebbe preferito non aver mai iniziato a seguire le vicende della ex-non vedente, potenziale angelo, di nazionalità russa naturalizzata americana meglio conosciuta come Prarie. Altre discussioni vertono invece sul significato del finale aperto, che ha lasciato adito a una sequela di teorie dei fan sistematicamente raccolte dai più importanti siti italiani e non. Dice la verità? Quali sono i veri poteri dei movimenti? Chi è Khatun? Qual è il ruolo dell’FBI?Ci sono significati nascosti dietro l’acronimo OA? In realtà è tutto un suo sogno, come per Ash e i Pokémon? Io, personalmente, ci dormo benissimo.

Sul serio: il primo episodio è stato l’unico che ho visto in una sola sessione. Per il resto, trascorsa la prima metà, il sonno mi coglieva puntuale. Non per noia, sia chiaro. Io non riesco a perdere conoscenza nemmeno davanti al film afghano Come Pietra Paziente. No, il punto è che in qualche modo la serie mi intratteneva e mi lasciava indifferente al contempo: tipo che mentre la guardavo ero felice di essere sveglio, ma quando mi coglieva il sonno non opponevo alcuna resistenza.

The OA è denso di simbologie e metafore grazie alle quali è possibile godere di più livelli di lettura. Voglio dire, stiamo parlando di un telefilm che presenta, in ordine sparso: una cieca più cazzuta di Daredevil, i russi e la mafia che ammazza impunemente bambini, le esperienze pre-morte, gli angeli, i mezzi angeli, gli Easter Egg in braille, l’FBI, Riz Ahmed, Hershel, farmaci psicotropi, Amazon e il nuovo capitalismo come fonte della falsità (?), il sospetto che sia tutta una storiella tipo Vita di Pi, le dimensioni parallele e la cura della SLA (quella del cancro è passata di moda). A questo aggiungiamo un accenno per nulla velato al Columbine Massacre, e la frittata è fatta: The OA è un lunghissimo trip. Ma se le droghe finiscono? Si va in automatico, ci si adagia sul materiale come il concorrente di Masterchef che non viene eliminato solo perché ha scelto il filetto di cervo che lo schiaffi in padella ed è squisito.

Se è vero che chi ben comincia è a metà dell’opera, è anche ammissibile che se non prosegui con medesima carica rischi di tornare indietro. La tensione viene smorzata, scomposta, finché non ti chiedi più come andrà a finire, ma dove caspio andrà a parare. Un po’ come si fa davanti a una soap opera. Con la quale, tra l’altro, la serie condivide alcuni elementi che da tempo immemore attecchiscono direttamente alla pancia degli spettatori: l’amore impossibile, l’amore malato e quello ambiguo, il tradimento, la bugia e l’inganno. Ecco, forse l’acronimo OA, più che assonanza con DOA o inversione di Alfa e Omega, è un riferimento proprio alla sOAp opera.

Le nonne che si riposano nel dopo pranzo guardando Il Segreto sanno bene da che parte sta la verità, e tifano per i buoni che soccombono alle macchinazioni del nemico. Lo scontro, qui, sta sullo stesso piano. La serie ha il merito di aver reinterpretato il genere, un po’ come a suo modo ha fatto Downton Abbey, e averlo accompagnato nell’epoca che certuni chiamano della post-verità. In cui non importa tanto scoprirla, la verità, piuttosto decidere cosa farne. A un certo punto siamo chiamati a raccogliere ciò in cui crediamo e intervenire. Poche storie. Ed è per questo che il suo finale di stagione è così sopra le righe, senza montaggi sfrenati e nel silenzio dei movimenti. Le parole sono armi, mentono, mentre i buoni agiscono, si muovono. Ma si tratta anche di una scelta tattica. Come pensate che finisca una soap opera? Con un finale aperto, perché la produzione potrebbe sempre decidere se chiudere baracca e burattini o tirare a campare ancora per un anno.

Giunti al finale della prima stagione di The sOAp, si possono pensare diverse cose, che potremmo racchiudere in due categorie. La prima si chiama “Lo sapevo, la risposta è agire insieme, per una volta la religione unisce invece che dividere”. La seconda invece “Mi state fracassando le palle con questi movimenti senza senso, io voglio solo vedervi morire male”. Dobbiamo quindi accogliere la soap opera 2.0 o rigettare questo nuovo genere televisivo nel dimenticatoio? Anche un Negroni Sbagliato trova posto nel repertorio di un barman. Non è neanche realizzato male. Ci sono gli attori, c’è una regia con gli attributi e quei bellissimi movimenti sono stati creati dal geniale coreografo dei video di SIA. Insomma, la roba c’è, o almeno c’è stata. Poi se qualcuno volesse togliersi lo sfizio potrebbe sovvenzionargliela (la roba) con una petizione su Change.org. Io, personalmente, ci dormo benissimo.

P.S. Se The OA vi pare ancora un esperimento, e in quanto tale incompleto, su Netflix trovate due valide alternative: The Get Down, epopea black sulla nascita del rap diretta dal luccicante Baz Luhrman o una vera soap vecchio stile ma con 10 milioni di dollari di budget: La Reina del Sur. Come donna Imma, ma ispanica e giovane.