L’eredità di famiglia è di quelle che pesano, quell’ICO che si è issato a bandiera dell’espressione artistico emotiva del videogioco e che ben pochi possono avere l’ardire di snobbare o criticare, sebbene fosse lungi dall’essere un gioco perfetto. E poi Shadow of the Colossus, un titolo travolgente in cui l’abbattimento sistematico di sedici colossi era pratica necessaria per risvegliare l’amata, preda ormai del morso della morte. Entrambi giochi unici e molto particolari, capaci di toccare le corde dell’anima prima ancora che quelle del videogioco in senso stretto. E poi c’è The Last Guardian, terza opera di Fumito Ueda, un lavoro non impeccabile ma che riesce comunque a distinguersi per poesia e ispirazione ed un carisma che trascende l’estetica, toccando anche la forma ludica e andando palesemente controcorrente, quasi fosse una macchina del tempo del videogioco. E non ho usato la parola “tempo” a caso: parliamo di un prodotto che si è fatto attendere per quasi dieci anni, saltando non una bensì quasi due generazioni di console, dato più volte per cancellato e invece solamente “ibernato” in quel di Sony, in attesa di fare il suo ritorno in un mercato ben diverso da quello che doveva essere in origine. Così come diverso è il videogiocatore moderno pronto ad accoglierlo.
Andiamo per ordine: il concetto ludico è tanto semplice quanto efficace e sembra mutuare la filosofia di ICO e simili, in cui il fulcro dell’esperienza era essenzialmente un susseguirsi di stanze e corridoi da esplorare, in cui il giocatore era catapultato senza alcun pretestuoso incipit narrativo, alla ricerca della leva da tirare o della cassa da spostare per avanzare così all’interno dell’avventura. Si, un’avventura nel vero senso della parola, prima ancora che un film interattivo in cui una rocambolesca sequenza scriptata o il colpo di scena della trama ne scandiscono i passaggi. The Last Guardian prende l’idea dietro al videogioco cinematico e la rifiuta prepotentemente, preferendo una narrazione più vicina alla fiaba o, meglio ancora, a un romanzo. E questo lo si capisce dalle battute iniziali: risvegliatosi al fianco di un’enorme creatura alata che risponde al nome di Trico, il protagonista bambino si accorge di essere rimasto prigioniero in un enorme tempio in rovina, una sorta di prigione (o sarebbe meglio parlare di “nido”) prima palcoscenico di chissà quali rituali ancestrali. Una volta liberato l’enorme animale dovremo, anche e soprattutto grazie al suo aiuto, tentare in tutti i modi di evadere da quel luogo dimenticato dal tempo. Il girovagare solitario, i lunghi silenzi, la globale malinconia che sembra pervadere ogni angolo del castello: ogni cosa acquista una motivazione sottile ma potente che non potrà che scuotere le emozioni del giocatore. Attenzione però, non avremo solo “silenzi” ad accompagnarci: a differenza dei due titoli precedenti, sin dal primo minuto saremo chiamati ad ascoltare la voce del protagonista, che “racconterà” ciò che stiamo vivendo a schermo, proprio come se narrasse la sua storia da tramandare ai posteri. Senza dimenticare, di tanto in tanto, di offrirci anche sgraditi suggerimenti su come superare un enigma su cui stiamo perdendo troppo tempo (si parla comunque di lasciare praticamente il joypad a terra per svariati minuti, senza muoversi, prima di ricevere un indizio qualsiasi).
[quotedx]The Last Guardian prende l’idea dietro al videogioco cinematico e la rifiuta prepotentemente[/quotedx]
Aggrappati quindi al dorso del nostro Trico e armati solo di tanta forza di volontà, il nostro obiettivo sarà esplorare ogni anfratto, ogni grotta e ogni corridoio del castello. Questi coprono una porzione considerevole della pratica di gioco ed è in effetti uno degli elementi che potranno essere recepiti in maniera distinta e opposta dai giocatori. Per chi non è avvezzo alle classiche avventure a enigmi, masticate a più non posso nelle prime due generazioni di console PlayStation, ogni enigma e ogni rompicapo sarà letto come una fastidiosa e pesante incombenza. Per tutti gli altri, si tratterà invece di un momento di placida riflessione, dove le location scorrono evocative, immerse in abbacinanti silenzi. Già da qui si erge uno spartiacque fra chi amerà e chi odierà il titolo. Risolto un puzzle ambientale, che spesso implica il tirare una leva o trascinare una cassa, una pratica che se viene bene accolta all’inizio, diventa stancante e noiosa a lungo andare, con tragitti spesso troppo lunghi (e un accenno neanche troppo velato di backtracking). Sia chiaro, nel titolo di Ueda non esistono altre occupazioni ludiche se non risolvere puzzle entrando in confidenza con il nostro piumato compagno: se non avete quindi un gusto tale da apprezzare i silenzi, le architetture contorte e l’esplorazione di ogni angolo o anfratto, la noia vi avrà presto in sposa, ricambiandovi con sbadigli e qualche rimprovero all’indirizzo del bestione che, per quanto magistralmente animato, spesso preferirà ignorare i nostri comandi o rispondere ad essi con imbarazzante ritardo.
Trico, in particolare, merita una menzione a se stante: memore dei colossi da scalare abbattuti anni fa, Ueda ha deciso di mettere al nostro fianco questo gigantesco essere piumato, di utilità del tutto simile a che la bianca e pura Yorda rappresentava nell’avventura originale su PS2. Potremo infatti chiamare a noi la creatura impartendogli ordini elementari (dal venire verso di noi permettendoci di arrampicarci sulle sue zampe, all’effettuare un salto, all’andare in una determinata direzione), lasciando che questa risolva a sua discrezione una porzione dell’enigma ambientale che saremo chiamati a superare. Ma non solo: Trico dovrà essere nutrito con alcuni barili luminescenti, ogniqualvolta la sua forza fisica raggiungerà il limite, specie dopo un attacco da parte delle misteriose armature animate che popolano il desolato castello, il cui unico scopo sarà solo ed esclusivamente quello di voler catturare il protagonista bambino, trascinandolo in un portale misterioso (questo dettaglio vi ricorda forse qualcosa?) per scopi apparentemente non chiari. Che arriviate con insulti fra i denti o con un feeling simile a quello che si avrebbe con un animale domestico che vi fa le fusa, Trico è a tutti gli effetti la personalissima visione di Ueda di quello che Dragon Trainer è ed è stato per un certo cinema d’animazione moderno. E il paragone non è assolutamente forzato, potete credermi.
[quotesx]Un momento di placida riflessione, dove le location scorrono evocative, immerse in abbacinanti silenzi[/quotesx]
Tecnicamente, The Last Guardian mostra pregi e difetti della propria genesi, tradendo la sua provenienza dalle passate due generazioni di console. Sebbene il team capitanato da Ueda sia ben lontano dalle capacità di Naughty Dog e compagnia bella, la resa panoramica del castello comunque buona. Eppure non si può tacere dell’indecisione che talvolta coglie il frame rate, specie in presenza di Trico, evenienza che non disturba l’azione lenta del gioco, ma che comunque infastidisce e toglie smalto al quadro artistico, specie sui campi larghi. Anche la telecamera è vittima di un’incerta visione delle cose, impallandosi in certe situazioni limite o rendendosi macchinosa in altre. La regia automatica da spesso luogo a errori nei momenti in cui si cerca di forzarla manualmente, magari per vedere là dove il gioco vuole che noi si arrivi con una faticosa sessione di free climbing. Visivamente, e questo è chiaro sin dal primo secondo, il gioco paga qualcosa al suo predecessore spirituale, nonostante questa volta la componente architettonica (sorprendente in ICO, magnifica in Shadow of the Colossus) si limita a punteggiare timidamente le architetture del “nido”, con l’eccezione di pochi frangenti realmente originali. D’altra parte è possibile che una maggiore attenzione al contorno avrebbe tolto visibilità ai protagonisti morali del gioco. O forse no.