Earthlock: Festival of Magic – Recensione

Il percorso che ha condotto Bendik Stang e il suo piccolo team di sviluppatori indipendenti, noto come Snowcastle Games, alla realizzazione di questo Earthlock: Festival of Magic è stato alquanto tortuoso, e non soltanto perché le autostrade nella loro natìa Norvegia scarseggiano: dagli esordi della compagnia che le valsero numerosi elogi per il simpatico Hogworld: Gnart’s Adventure, nominato fra le migliori app del 2011, al rapido declino delle vendite dovuto in buona parte all’inesperienza in materia di promozione e marketing, dalla concessione di fondi statali a garanzia della sua sopravvivenza al disastroso kickstarter del 2013 che minacciò seriamente di farle chiudere baracca e burattini, la tempra di Stang e di quanti scelsero di seguirne la visione è stata messa a dura prova in più di un’occasione, ma un secondo finanziamento collettivo poggiato questa volta sul giusto battage pubblicitario e su un incessante tam tam mediatico fra più gruppi di discussione e comunità a tema videoludico si è infine rivelato vincente, e così il loro sentito omaggio ai giochi di ruolo di stampo giapponese che hanno imperversato a cavallo degli anni ’90 ha potuto vedere la luce sia su PC che su console dell’attuale generazione. Sebbene infatti oggi la differenza tra RPG di stampo orientale e occidentale risieda più che altro nell’estetica che li caratterizza, nel periodo di tempo intercorso dal debutto del Super Nintendo al termine della sesta generazione di console (quella di Dreamcast, Gamecube, Xbox e PlayStation 2, per capirci) questa particolare declinazione aveva connotati propri difficilmente riscontrabili nei titoli del medesimo genere programmati in occidente, che potevano essere sintetizzati in una struttura suddivisa tra esplorazione e combattimento a turni esemplificata dai numerosi Dragon Quest e Final Fantasy pubblicati in quegli anni. Ed è proprio l’amore e la dedizione nei confronti di questi ultimi che trapelano da ogni nota, ogni fondale, ogni inquadratura e ogni modello poligonale contenuto in Earthlock, confezionato in modo da replicare quelle esatte atmosfere a dispetto del tutt’altro che incredibile budget a disposizione, molto lontano da quello che ha saputo garantire gli elevati standard qualitativi dei prodotti Square ed Enix dell’epoca. Ora che questo ambizioso e nostalgico gioco di ruolo è approdato sulla console che ha ospitato molte delle “fantasie finali” più amate dai videogiocatori, basterà il cuore, assolutamente al posto giusto, per renderlo indimenticabile anche ai loro occhi?

La storia di Earthlock: Festival of Magic è quella di Umbra, un mondo che ha smesso di ruotare sul proprio asse a causa di un certo evento catastrofico, causando la netta suddivisione dello stesso in due emisferi ben distinti, uno riarso dai raggi del sole e l’altro flagellato da gelidi venti invernali. La gloria delle leggendarie civiltà che un tempo lo abitarono è rimasta sepolta negli impenetrabili recessi delle catacombe che costellano la superficie, mentre l’unico lembo di terra ancora abitabile è una piccola regione al centro nella quale si radunano ricercatori, archeologi e cacciatori di tesori: Amon, il protagonista, appartiene proprio alla terza categoria, e la sua ricerca personale volta ad accumulare fama e ricchezze, con una particolare propensione per queste ultime, finirà per coinvolgerlo suo malgrado in una guerra fra il dispotico impero di Suvia e la frangia ribelle intenzionata a rovesciarlo, durante il quale avrà modo di visitare ogni angolo di Umbra e radunare un manipolo di improbabili alleati. Nulla di troppo complesso o articolato, dunque: gli eventi si succedono in maniera piuttosto lineare e, per i più smaliziati, abbastanza telefonata, lasciando spazio alla caratterizzazione dei personaggi, ciascuno provvisto di motivazioni personali per unire le forze con Amon, ed agli scampoli di folclore che contribuiscono a meglio delineare il minuto universo costruito da Snowcastle Games. La presenza di Gnart, sul quale era incentrato il loro titolo d’esordio, e la sua funzione di scriba rende accessibili le informazioni riguardanti Umbra ed i suoi abitanti in qualsiasi momento, qualora volessimo prenderci una pausa dallo svolgimento della trama per apprezzare l’ambientazione nel dettaglio. Ma, ancor prima di addentrarci nel gameplay, ciò che colpisce all’inizio è indubbiamente l’ottima colonna sonora, opera di quella Eiko Ishiwata Nichols che un paio di anni fa ha deliziato le orecchie degli appassionati con una splendida interpretazione acustica delle tracce di Final Fantasy VI: il suo eccezionale talento riesce a sottolineare qualsiasi momento, dai dialoghi alle fasi più concitate dei combattimenti passando attraverso la perlustrazione delle eterogenee regioni di Umbra, con un garbo sinfonico di cui avremmo bisogno più spesso nelle produzioni moderne di ben altra caratura. L’ottimo sound design, poi, riesce a mescolare senza soluzione di continuità tutti i brani, agevolando un passaggio musicale indolore fra situazioni che richiedono accompagnamenti diversi. E, a proposito di mappa, oltre all’egregio accompagnamento musicale i nostri sensi vengono deliziati da un comparto grafico più che discreto, il cui stile a bassa densità di poligoni è avvolto da colori pastellati e una scelta artistica in termini di texture simile a quanto abbiamo già avuto modo di vedere in giochi come Torchlight II, mentre la resa del netto contrasto fra il fantasy più sfrenato e le forti influenze steampunk rimandano la memoria al tempo in cui Grandia e Skies of Arcadia popolavano i sogni di tutti gli avventurieri elettronici. Benché i fondi stanziati abbiano rigorosamente tarpato le ali alla visione di Stang, la cura riposta nella raffigurazione dell’intero ecosistema di Umbra è tangibile e spesso fa emergere il desiderio di poter interagire con molti più elementi dello scenario, fatta eccezione per il classico scrigno che compare di tanto in tanto. L’aspetto esteriore di alcuni degli avversari che incontreremo è degno di nota, per quanto Earthlock tenda a riciclare spesso i modelli tridimensionali variando solo le tonalità cromatiche. Anche in tal senso, una maggiore varietà non avrebbe guastato.

OSCURI SUSSURRI E ANTICHE ROVINE

Altro punto a favore, che denota la consapevolezza degli autori anche per ciò che riguarda le pecche dei classici di una volta, è la completa assenza di incontri casuali: dall’overworld ai singoli dungeon, tutti i mostri con i quali è possibile scontrarsi si spostano come il nostro alter ego lungo i livelli, ed è in nostro legittimo potere oltrepassarli senza colpo ferire qualora non volessimo affrontarli, come pure colpirli a tradimento prima che ci scorgano per ottenere un vantaggio all’inizio della tenzone (lo stesso vale per gli assalitori che riescono a coglierci alle spalle, chiaramente). I benefici di tali manovre includono la possibilità di decimare i gruppi più numerosi di nemici, ma accettare una sfida più ardua significa ottenere un moltiplicatore di esperienza più elevato al termine della battaglia, dunque a volte vale la pena rischiare per giungere al cospetto dei boss più aggressivi senza la necessità di battere in ritirata e tornare indietro a racimolare qualche livello aggiuntivo. Dei sei protagonisti che entreranno a far parte della banda nel corso delle nostre peripezie, i quattro selezionati per la fase esplorativa devono essere a loro volta accoppiati nei ruoli di guerriero, ossia chi effettua le azioni di attacco e difesa vere e proprie, e protettore, responsabile degli effetti di supporto come cure e potenziamenti: lottando insieme durante gli scontri, suddivisi in turni asincroni nei quali nemici e alleati si alternano seguendo una comoda scaletta visualizzata a schermo, i due accrescono il loro legame e hanno accesso ad una serie di vantaggi passivi che possono facilitare le dispute successive, incentivando dunque la ricerca delle combinazioni migliori da impiegare in una determinata circostanza. Oltre a ciò, ogni personaggio possiede due posture marziali che gli garantiscono l’accesso a differenti abilità: Amon, ad esempio, può portare veloci attacchi furtivi corpo a corpo o scagliare pesanti bordate dalla retroguardia, aggiungendo così un’ulteriore sfumatura strategica ai conflitti. L’equipaggiamento tradizionale che di solito si raccoglie e si acquista negli altri RPG viene qui sostituito da un tabellone, specifico per ciascuno, che può essere personalizzato a piacimento con una serie di carte atte a conferire capacità speciali, bonus alle caratteristiche ed effetti amplificati per gli attacchi fisici o per quelli magici, migliorandone la versatilità: quantunque non sia possibile trasformare un mistico stregone in un barbaro sanguinario, è comunque una soluzione utile per consentire a tutte le “professioni” di trascendere i limiti imposti dal loro ruolo predefinito. Salvataggi e spostamenti rapidi sono vincolati alla presenza di particolari monumenti scolpiti in foggia di rospo, che negano di fatto il privilegio di memorizzare ovunque i propri progressi. La distribuzione delle stesse è generosa, dunque tale “obbligo” quasi anacronistico se paragonato agli archetipi moderni dei giochi di ruolo digitali risulta meno pesante di quanto si potrebbe credere. Una meccanica curiosa è quella del villaggio di Plumpet che, oltre a fungere da quartier generale per il ridotto manipolo di eroi sotto il nostro controllo, permette di rimpinguare le scorte di viaggio, acquistare nuovi oggetti e… coltivare pozioni e proiettili: i semi raccolti in giro possono infatti essere piantati per ottenere particolari munizioni utilizzabili dai personaggi che sfruttano gli attacchi a distanza, ed è sicuramente un tocco originale che i fan di Farmville e Harvest Moon apprezzeranno. Il problema è che si tratta anche dell’unico modo per ottenere tali oggetti, che non vengono venduti da nessun negozio in-game, dunque per racimolare un buon quantitativo di oggetti di supporto bisognerà armarsi di tanta pazienza, scelta invero abbastanza discutibile.

A dispetto dell’accortezza infusa nel rielaborare buona parte delle peculiarità emblematiche dei JRPG per proporle smussate delle loro imperfezioni congenite, i difetti che comunque minano l’esperienza di Earthlock sono da ricercarsi nella relativa immaturità degli sviluppatori e, come già ribadito, nella sua intrinseca natura di titolo indipendente realizzato a basso costo, che in diverse occasioni fa riflettere su quanto il comparto tecnico sia stato affossato da una base finanziaria non proprio cospicua: i modelli poligonali e le animazioni in generale risultano legnosi al limite del tollerabile, frutto di un’implementazione non proprio ottimale di Unity, e gli effetti sonori non sempre si accostano in maniera uniforme all’azione di gioco. L’intelligenza artificiale dei nemici non brilla quanto a ingegno, poiché spesso capiterà di vederla accanirsi contro una delle coppie del party per poi passare all’altra ad un soffio dalla sconfitta, lasciandoci ampio margine per recuperare le forze. Per bilanciare la mancanza di acume, molti dei boss possiedono attacchi fin troppo poderosi, capaci di annichilire i nostri eroi con un paio di colpi, e l’unica soluzione per oltrepassarli è quasi sempre riuscire a vincere l’attrito, tornando indietro per ammassare livelli fino a schiacciarli sotto il peso di statistiche numericamente superiori. La storia inoltre tratta in maniera esauriente il passato e le ragioni di Amon e Gnart, ma non approfondisce quasi per niente i trascorsi degli altri personaggi, che dunque finiscono per diventare figure di secondo piano utili soltanto per le capacità che sfruttano in battaglia e non per le cause personali che hanno abbracciato: la semplice possibilità di farli interagire fra di loro al di fuori degli eventi, alla stregua di quanto accade nei vari Tales of, ne avrebbe lasciato un ricordo senza dubbio migliore. Trattandosi del primo capitolo di una presunta saga, poi, non tutte le domande troveranno risposta al termine delle vicende, e la spiegazione di una serie di circostanze legate in particolar modo al finale andrà presa per oro colato, nella speranza che vengano sviscerate a dovere negli ipotetici episodi successivi.