Inner Chains – Recensione

La recente uscita di Prey e, tempo prima, il reboot di Doom hanno, per certi versi, riportato alle luci della ribalta quel modo “antico” di pensare gli FPS. Quel modo semplice ma complesso, teso a creare storie piuttosto che unicamente K/D, intento a modellare universi invece che insipidi deathmatch. Nonostante questo modo di vedere le cose non sia mai definitivamente morto, è sopravvissuto serpeggiando nel sottobosco dell’industria. Il nostro Inner Chains, sparatutto single player dai toni oscuri e decadenti sviluppato da Telepaths Tree, sembra inseguire alla lettere gli insegnamenti delle vecchie glorie del passato.

Le premesse del gioco, già solo guardando il filmato introduttivo, denotano anche una certa attenzione dei developer nel “metaforizzare” gli avvenimenti a cui assisteremo nel gioco, creando dei paralleli logici fra l’orrore che permea l’intera esperienza ludica, con domande e questioni esistenziali e che riguardano il proprio universo interiore. Ma, premesse a parte, come si comporterà il nostro? Scopriamolo assieme!

Il gioco è, come già detto, un First Person Shooter classico, ambientato in un universo decadente ed apocalittico, dove magia, brutalità e tecnologia si intrecciano fra di loro, creando scenari inquietanti e violenti al contempo. Nulla o quasi si sa del nostro personaggio che, per quel poco che si riesce ad afferrare, si ritroverà partecipe di un rito di carattere religioso per poi, all’improvviso, scivolare nelle profondità del tempio in cui stava per esser immolato (forse) ed andare incontro ad un vero e proprio incubo. Da qui, in pratica, inizia il gioco vero e proprio, visto che per la prima mezz’ora circa attraverseremo lentamente una serie di stage, che ci faranno ammirare l’eccezionale lavoro di stampo artistico profuso nel gioco.

Inner Chains

Qual è lo scopo del nostro girovagare? Già rispondere a questa “semplice” domanda, andrebbe ad evidenziare uno dei punti deboli della produzione. Il primo neo è infatti l’eccessiva rarefazione ed evanescenza della trama, che in un FPS single player è una grave carenza. Quello che faremo, in poco più di quattro ore complessive di campagna, sarà attraversare ambientazioni tetre e piene di pseudo-zombi e varie amenità mostruose dalle cattive intenzioni, risolvendo enigmi piuttosto banali che saranno quasi sempre legati all’apertura di porte e, di tanto in tanto, imbattendoci in tavole di pietra da cui apprendere la lingua dei nativi locali, al fine di interpretare alcune pitture rupestri che dovrebbero aiutarci a comprendere meglio il mondo di gioco.

Una caratteristica interessante del gameplay è l’utilizzo ambivalente delle armi che, oltre a svolgere il loro ruolo primario di “sterminio”, assolveranno anche a compiti secondari ma di una certa rilevanza nella risoluzione dei puzzle che incontreremo. Tecnicamente, l’esperienza gameplay del gioco termina qui e con essa anche lo stream narrativo. Persino superando la boss battle finale, l’unico combattimento impegnativo in un fluire di scontri piuttosto semplici, ed assistendo al consequenziale filmato che funge da epilogo all’esperienza ludica, pochi frammenti di trama saranno realmente chiari e, contemporaneamente, ci ritroveremo alla fine di quella che parrà come un’esperienza video-ludica un po’ incerta e, per certi versi, incompleta.

C’è qualcos’altro che bolle in pentola? In realtà no: Inner Chains finisce qui, anche perché l’intera esperienza di gioco durerà, come già detto, all’incirca quattro ore. Pochi segmenti temporali che, al contempo, saranno falcidiati de notevoli problemi tecnici che andranno da cali di frame improvvisi (anche su piattaforme piuttosto potenti), a game breaking bug che ci obbligheranno a re iniziare una sezione del gioco da capo. A questo si aggiungano anche un sistema delle collisioni un po’ rudimentale che, specialmente nelle fasi iniziali in cui avremo solo le nostre nocche a difenderci, sarà il nostro principale nemico, ed una generale I.A dei nemici sottotono, i quali spesso potranno essere facilmente eliminati sfruttando l’ambiente di gioco.

Da un punto di vista grafico, la situazione è ambiguamente altalenante: se da un lato rimarremo a bocca aperta dinanzi ad evocativi paesaggi apocalittici, dove troneggiano mastodontiche costruzioni che uniscono il primitivo ed il tecnologico, dall’altro resteremo sorpresi di texture in bassa risoluzione e modelli poligonali generici e un po’ abbozzati. La situazione migliora se sei guarda alla resa generale degli ambienti interni, in grado senza dubbio di trasferire il senso di decadenza di cui il gioco è intriso. In generale, il comparto in questione soffre di una certa limitatezza di fondo, anche solo pensando ai pochi settaggi effettivamente disponibili e, quindi, alla poca capacità di intervenire drasticamente sulla resa del gioco, per tamponare l’insufficiente ottimizzazione generale del titolo.