Wonder Boy: The Dragon’s Trap – Recensione

Il primo Wonder Boy fece la sua comparsa in un angolo del bar sotto casa durante l’estate del 1987, prendendo il posto di un ormai insignificante The Legend of Kage (insignificante per il mio portamonete, almeno, dato che mi ero fatto regalare la cassetta per Commodore 64): il capoccione biondo di quel piccolo cavernicolo, che abbatteva ragni e serpenti a colpi d’ascia come se non ci fosse un domani, campeggiava in mezzo al fumo azzurrognolo delle Marlboro fumate dagli altri avventori del locale, richiamo irresistibile per me e condanna definitiva per i pochi spiccioli che tintinnavano in tasca. Il proprietario decise di installare anche il suo seguito, Wonder Boy in Monster Land, e per me fu amore a prima vista: un gioco a piattaforme che consentiva di potenziare il personaggio con equipaggiamento sempre migliore era una cosa che non avevo mai visto, e gettò il seme di quella che poi divenne un’autentica passione per gli action RPG. Inutile aggiungere che feci carte false per appropriarmi di entrambe le conversioni casalinghe su Master System, e il rilascio del terzo capitolo (quarto in realtà, e secondo nella sotto categoria Monster World, ma la nomenclatura arbitraria che è stata assegnata ai giochi del “ragazzo meraviglia” meriterebbe un articolo a parte) venne accolto a braccia aperte nella mia collezione, occupando innumerevoli pomeriggi fino al suo completamento. Allo stesso modo, i ragazzi che nel 2015 si sono radunati sotto la bandiera del team Lizardcube hanno trascorso buona parte della loro pre-adolescenza con le avventure dell’intrepido selvaggio, ma la passione che li accomuna si è spinta oltre il semplice legame affettivo: il capo sviluppatore in particolare, Omar Cornut, lavorava sulla retroingegnerizzazione dei titoli con cui è cresciuto fin dal 1999, tanto per migliorarne la resa sugli attuali emulatori quanto per sviscerare eventuali segreti rimasti celati fra le righe di codice, e la sua curiosità lo ha spinto ad analizzare in maniera particolarmente approfondita l’ultimo episodio mai realizzato per la console a 8-bit di casa SEGA, portandolo così ad una comprensione tale dei sorgenti da fantasticare su un’ipotetica rielaborazione che potesse trarre vantaggio dalla potenza hardware moderna. L’incontro fortuito con Ben Fiquet, assieme al quale aveva già collaborato per la realizzazione del delizioso Soul Bubbles su Nintendo DS, diede inizio ad un progetto amatoriale che puntava a ricostruire le atmosfere dell’originale senza tirare in ballo nomi, personaggi e materiale coperto da copyright per poi, qualche tempo dopo, far sbocciare l’idea in un prodotto ufficiale su licenza grazie all’intercessione di DotEmu, che si occupò di fare da ponte tra gli ambiziosi sviluppatori e la dirigenza SEGA, e al contributo di Ryuuichi Nishizawa, uno dei fondatori di Westone Bit Entertainment, autori della serie. Questo Wonder Boy: The Dragon’s Trap è insomma un fedelissimo rifacimento del titolo dal quale prende ispirazione, corredato da un restyling grafico e sonoro di prim’ordine e da una discreta gamma di correzioni e accortezze che non lo rendono una semplice trasposizione pedissequa ma, anzi, smussano alcuni aspetti invecchiati decisamente male per sottoporli con maggiore efficacia ai palati moderni pur mantenendo, nel bene e nel male, la sua genuina indole di figlio d’altri tempi.

La possibilità di alternare la vecchia grafica (e le musiche!) con quella completamente ridisegnata a mano mediante un semplice tasto non è solo un tocco di classe notevole, ma nasconde un simpatico segreto: premendo a ripetizione il pulsante, infatti, la transizione orizzontale rallenta fino a fermarsi, consentendoci di giocare con una porzione di schermo in alta risoluzione e un’altra a 8-bit!

AFFIDABILE. MADE IN JAPAN.

Wonder Boy: The Dragon’s Trap si apre con un breve preambolo giocabile che sintetizza il finale del precedente Wonder Boy in Monster Land, nel quale il nostro prode affronta il labirintico castello in cui si annida il perfido drago che tiene in scacco le sue terre. La rivelazione che tanto la natura della fortezza quanto quella dello stesso mostro sia futuristica anziché medievaleggiante è poca cosa rispetto all’anatema che quest’ultimo lancia in extremis sullo sventurato protagonista, strappandogli la sua umanità e trasformandolo in un lucertolone sputafuoco. Deluso dal suo nuovo aspetto, il ragazzo meraviglia (o ragazza, scelta estetica che Lizardcube ci permette di operare nella schermata introduttiva e che non influisce in alcun modo sull’avventura) decide perciò di imbarcarsi in un nuovo viaggio alla ricerca di un modo per recuperare la sua forma originaria, e per fare ciò sarà costretto a scontrarsi con i “parenti” del rettile meccanico disseminati per il mondo di gioco che, bontà loro, gli infliggeranno metamorfosi aggiuntive prima di lasciare questa valle di lacrime. Ma non tutto il male viene per nuocere, poiché le forme animalesche sono corredate da altrettante capacità speciali che ci permettono di interagire in maniera specifica con gli scenari e raggiungere punti della mappa precedentemente inaccessibili, come pure da attributi offensivi e difensivi atti a rispecchiare la loro prestanza in combattimento: nei panni dell’uomo topo, ad esempio, saremo in grado di intrufolarci nei pertugi ed utilizzare delle piattaforme particolari per scalare le schermate in verticale o percorrerle a testa in giù, come uomo piranha (invero piuttosto simile alla celebre creatura della laguna nera) ci muoveremo sott’acqua allo stesso modo che sulla terraferma, le ali dell’uomo falco permettono di scavalcare fossati e raggiungere piattaforme altrimenti fuori dalla nostra portata e la potenza dell’uomo leone è indispensabile per sbriciolare gli occasionali blocchi che sbarrano il passaggio verso altre zone. Il level design è strutturato appositamente per premiare a poco a poco i progressi del giocatore, coniugando gli elementi caratteristici dei giochi a piattaforme, l’esplorazione libera (o quasi) delle diverse zone che vanno a costituire la mappa complessiva e un tenue sapore ruolistico per quanto concerne i differenti attributi da migliorare tramite scudi, corazze e armi, acquistabili con le monete d’oro strappate ai nemici sconfitti che ricompaiono puntuali ogni volta che mettiamo di nuovo piede in un livello già visitato, formula che lo rese all’epoca una sorta di antesignano metroidvania, benché i più esperti (leggasi, stagionati) fra noi avessero già scorto traccia della medesima impostazione in titoli come Brain Breaker per Sharp X1 e Dragon Slayer II: Xanadu per MSX, rilasciati ben prima del 1989. Trattandosi di uno dei primi esperimenti del genere, tuttavia, Wonder Boy: The Dragon’s Trap mostra qualche difetto congenito dovuto al lascito prettamente arcade dei predecessori: prepariamoci dunque ad affrontare lunghe sessioni di gioco prive di un qualsiasi punto di salvataggio intermedio per completare ogni livello, durante le quali sarà necessario ricordare la disposizione delle piattaforme, il numero ed il comportamento dei mostri presenti e l’ubicazione degli occasionali negozi di passaggio, in particolare di quelli nascosti dietro porte invisibili, perché ogni sconfitta comporta il ritorno immediato al villaggio di partenza con la perdita di qualsivoglia oggetto speciale raccolto (equipaggiamento e monete rimangono invece in nostro possesso). La mancanza di una mappa richiede inoltre uno sforzo mnemonico ulteriore a causa della consequenzialità ben poco logica delle varie zone, che non vengono segnalate nemmeno da una seppur vaga indicazione, e la nebulosità degli obiettivi affida unicamente al desiderio di ricerca del giocatore, ma non è il caso di farsi prendere dal panico: siamo comunque alle prese con un titolo che, difficoltà personali a parti, non richiede più di quattro o cinque ore per essere completato, permettendo così anche a chi non si trova a proprio agio con l’approccio “vecchia scuola” di raggiungere la conclusione (temporanea, s’intende) di questo nuovo viaggio nel mondo dei mostri.

Benché lo stile di Ben Fiquet possa ricordare a colpo d’occhio quello giapponese, è in realtà tipico delle bande dessinée, i fumetti di produzione belga e francese che, ad oggi, rappresentano la terza industria del genere più florida al mondo dopo i comics americani e, per l’appunto, i manga nipponici.

Altro lascito di una tendenza andata via via scomparendo, o quantomeno divenuta non così fondamentale per la longevità di un gioco, è il bisogno di uccidere più e più volte i nemici di uno stesso livello per fare compere o ripristinare l’energia perduta nei vari negozi, ma ecco che qui si iniziano ad intravedere le migliorie apportate da Lizardcube: già a partire dal prologo, il quantitativo di denaro recuperabile è di gran lunga superiore rispetto al passato, e riuscire a mettere le mani sulla Spada Muramasa o sull’Armatura di Cristallo è questione di una manciata di minuti anziché di ore. Inoltre, è stata eliminata del tutto la raccolta delle pietre incantate che, su Master System, rappresentavano l’ascendente del personaggio principale nei confronti dei venditori, i quali rifiutavano di cedergli la merce migliore a meno che non ne avesse accumulate a sufficienza: piuttosto che sperare nella generosità dei mostri decimati, gli sviluppatori hanno inserito dei labirinti inediti da fronteggiare con una soltanto delle forme disponibili, e una singola pietra da ottenere al termine degli stessi. Una volta collezionate tutte, avremo quindi accesso a tutte le scorciatoie che conducono ai diversi boss, normalmente nascoste, mentre i porcelli negozianti non si faranno mai remore a liquidare gli oggetti più potenti previo pagamento del corrispettivo in monete. A tal proposito, è possibile consultare un utile riepilogo dei bonus conferiti da lame e protezioni prima dell’acquisto, onde evitare cattivi investimenti, ma solo se giochiamo con lo stile contemporaneo reimmaginato da Fiquet: con la semplice pressione di un tasto, infatti, ci viene concessa l’occasione di alterare non solo la grafica ma anche la colonna sonora per tornare ai cari vecchi pixel a 8-bit e alle melodie composte per il PSG della piccola, grande console targata SEGA da Shinichi Sakamoto, il cui arrangiamento orchestrale per la nuova versione è stato eseguito da Michael Geyre. Wonder Boy: The Dragon’s Trap è intriso di altri ritocchi grandi e piccoli volti a migliorare l’esperienza per tutte le generazioni di giocatori, frutto della cura e della passione che Cornut e i suoi hanno riversato nello svecchiamento di uno dei giochi più cari della loro infanzia, tangibile dalla prima schermata di caricamento fino all’ultima didascalia dei titoli di coda (i quali, fra parentesi, rendono alfine giustizia allo staff originale di Westone, rimasto ingiustamente escluso dai credits dell’originale): quello che stringiamo fra le mani è un autentico classico che merita tutta l’attenzione possibile, tanto bello da guardare quanto soddisfacente da conquistare, e non può che alimentare le speranze per i futuri progetti di Lizardcube che, mi auguro, non tarderanno a raggiungere i nostri schermi.