Last Day of June – Recensione

Negli ultimi anni all’interno del mondo dei videogiochi, soprattutto sul versante “critica”, si è aperta una diatriba sui cosiddetti giochi poetici. Escludendo il fatto che “poetico” come termine non caratterizza proprio un bel nulla se non l’atmosfera, sotto questo ombrello sono finiti giochi che spesso vengono accusati di essere poveri in termini di game design. I detrattori del genere (passatemi l’uso improprio del termine) sostengono che questi titoli, puntando tutto sull’impatto emotivo che hanno sul videogiocatore, tralasciano completamente, o quasi, quello che in realtà è l’aspetto fondamentale dei videogiochi ossia le meccaniche di interazione. Nulla di più sbagliato. Alcuni di questi giochi, scelgono la via della sottrazione e altri, bisogna ammetterlo, lasciano molto più spazio al dialogo e alle scelte narrative; esiste infine un gruppo di giochi però che è capace di sfruttare proprio gli elementi di game design per accrescere e sviluppare l’intimo rapporto emozionale che sono capaci di creare col giocatore, mettendo d’accordo proprio tutti sulla loro indubbia qualità. Questo è il caso di Last Day of June. Il titolo, sviluppato da Ovosonico, l’italianissimo developer guidato da Massimo Guarini, e pubblicato da 505 Games, divisione editoriale del gruppo Digital Bros, è un perfetto esempio di come elementi artistici di grande qualità possano sposarsi con un impianto di gioco stimolante e coinvolgente.

Musica, immagini e interazione

Di fronte a prodotti di questo tipo è necessario un approccio critico più profondo, che si pone l’obiettivo di fare un’analisi intrecciata e non parallela delle tre principali componenti del titolo: il comparto acustico, guidato dalle musiche del grande Steven Wilson, il comparto visivo, e il game design. Non credo sia un caso il fatto che alla base dell’opera ci sia un pezzo, Drive Home, del noto compositore progressive inglese. Parliamo di un uomo la cui estrazione artistica non è vicina né al mondo dei videogiochi, né tantomeno a quello delle soundtrack, ma di un musicista nudo e crudo che ha lavorato al fianco dei più grandi esponenti del mondo progressive e che è considerato all’unanimità, nel mondo della critica musicale, come uno degli ultimi grandi autori (così come lo si intendeva negli anni ’70).  Possibile che un solo brano sia capace di ispirare un intero videogioco? Assolutamente sì, se permettiamo alla sua carica emotiva e sinestetica di pervaderci. E mi permetto di suggerire a tutti la visione del video originale per capire meglio ciò di cui stiamo parlando.

Sperimentare, è questa la parola chiave. Il simbolo di quello che è stato fin dall’inizio l’obiettivo di Last Say of June è evidente soprattutto perché Guarini ha voluto Wilson direttamente coinvolto nel progetto come editor della sua stessa musica, così come coinvolta è anche Jess Cope, regista del meraviglioso video originale in stop motion realizzato appositamente per il brano. Come recita il trailer, il gioco racconta di una perdita, di un’elaborazione che ha più a che fare con una lotta per la vita. Per scelta (e di questo non arrabbiatevi) non racconterò assolutamente nulla della trama perché anche solo una parola detta in proposito rovinerebbe la meravigliosa esperienza che questo gruppo di artisti ci ha regalato.

Con il consenso, e la benedizione di Wilson, Guarini ha sviscerato (in senso buono) l’album di cui Drive Home fa parte e molti alti della carriera del musicista e, dalla sua intima melodia, ha creato qualcosa di nuovo. Ogni singola nota si accompagna a un gesto, un personaggio, una serie di immagini che hanno ora un più chiaro significato generato dall’intreccio creativo di suoni e immagini, come lo stesso Massimo Guarini ammette. E così come la musica in The Raven That Refused To Sing torna e ritorna sullo stesso gruppo di accordi, in maniera quasi insistente, il viola e il rosso tingono il mondo in una danza di colori caldi e freddi e Carl, nostro protagonista e compagno di viaggio, ritorna al fatidico “ultimo giorno di June”, vivendolo e rivivendolo nella speranza che il tempo possa cambiare il suo corso. Il grande rischio che una meccanica di questo tipo poteva generare, era quello di togliere potenza drammatica all’evento su qui tutto il titolo ruota, ma con mia grande sorpresa devo ammettere che l’effetto è esattamente opposto.

Quando la meccanica è poetica

La poetica del ritorno, e la possibilità di modificare i principali eventi che cronologicamente hanno condotto alla tragica perdita, assumono di volta in volta una carica emotiva maggiore grazie al supporto delle immagini e della colonna sonora. Le esperienze e le emozioni negative sono sempre accompagnate da colori freddi, dominati dal blu del mondo dei sogni di Carl, e da diverse linee di accordi minori che si intrecciano, mentre la volontà di cambiare il passato e la speranza delle emozioni positive di quella giornata tingono tutto di toni caldi, su cui impera una tiepida luce gialla, e sono accompagnati esclusivamente da accordi maggiori. Entrambi gli estremi si fondono, infine, in maniera omogenea ed organica proprio in quei pochi, malinconici, ultimi attimi che Carl e June vivono insieme, come all’interno di un quadro vivente dipinto di viola e l’arancione, la cui melodia principale è proprio il brano Drive Home.

Rivivere e modificare quella giornata in ogni minimo dettaglio diventa per il giocatore un modo di esorcizzare il difficile inizio del titolo. Nessun elemento trial and error e un effetto di backtracking praticamente irrilevante consentono a questa singolare meccanica da puzzle narrativo di scivolare in maniera così naturale tra le variazioni della trama da non risultare in alcun modo pesante. Tutto si incastra perfettamente e ogni scelta del giocatore va a comporre una linea temporale che conduce ad un unico possibile risultato, un finale agrodolce, che rende ancora più struggente l’esperienza di gioco e che trova il suo epilogo in un finale, rigorosamente post-credit, che come un pugnalata colpisce il giocatore in pieno petto.