The Road

The Road ha avuto una difficile distribuzione ed è arrivato nelle sale e in home video solo grazie alla casa Videa-Cde. [DVD Review]

Regia: John Hillcoat
Cast: Viggo Mortensen, Kodi Smit-McPhee
Distribuzione: VIDEA – CDE
Lingue: italiano, inglese
Sottotitoli: ita, ing, ita non udenti
Schermo: 2.35:1
Audio: DD 5.1
Dischi: 1
Extra: scene tagliate; making of

Per la durezza del soggetto, The Road, già presentato al Festival di Venezia nel 2009, ha avuto una difficile distribuzione ed è arrivato nelle sale, e adesso in homevideo, solo grazie alla casa distributrice Videa-Cde che, come già per The Hurtlocker, si è assunta questo rischio. Nel DVD come extra troviamo sette minuti di scene tagliate ed un classico making of che dettaglia tutte le fasi della lavorazione (11 minuti). L’immagine restituisce con nitidezza la particolare fotografia originale di Javier Aguirresarobe, dalle tonalità fangose come il mondo che raffigura. L’audio è potente e costantemente dettagliato, capace di enfatizzare adeguatamente le scene più cruente e l’ottimo commento musicale della splendida accoppiata Nick Cave- Warren Ellis.
La storia la sappiamo: il peggior nemico dell’umanità è l’essere umano. Che sia per una catastrofe atomica o una calamità naturale, o per la fine delle risorse energetiche o qualche pandemia, se l’umanità diventa disumana, per quanto si può resistere? Un padre e il suo bambino di 10 anni, l’Uomo e il Ragazzo, si trascinano in uno scenario apocalittico, perché la vita si sta spegnendo sul nostro pianeta. I raggi del sole non arrivano più sulla terra che si è lentamente trasformata in una landa fangosa, fredda, senza vegetazione né animali, ogni scorta alimentare e di combustibile ormai esaurita, si sopravvive mangiandosi a vicenda.
Qualche imprecisato cataclisma ha avvolto la terra in una spessa coltre di fumi-ceneri, attraverso i quali la luce del solo filtra appena, spandendo un lattiginoso chiarore non sufficiente per lo sviluppo di nessuna forma di vita naturale. Si intuisce come in una concatenazione inarrestabile il mondo comunemente detto civile si sia lentamente fermato, per proseguire sotto altra forma. Il padre è armato di una pistola con sempre meno pallottole, il corpo sempre più fragile e piegato, e trova la forza di proseguire solo nell’amore per il figlio, rimasto “umano” nonostante tutto proprio grazie al suo lavoro, alla sua dedizione, alla protezione.

È attraversato, come lampi dolorosi, dal ricordo dell’amata moglie che invece si è arresa ed è scomparsa. E anche per lui sarebbe più facile lasciarsi andare e soccombere. Ma non può farlo, perché quello è il compito di un genitore, in qualunque contesto, anche il più ferino: proteggere la propria prole e darle gli strumenti per andare avanti, sempre e comunque, dargli ricordi, dargli la coscienza di se e degli altri, dargli speranza.
E spiegargli come era bella la vita, quella che lui non ha potuto mai conoscere, la morbidezza di un divano, l’acqua calda per un bagno, il cibo succulento, il suono di un pianoforte, il Natale. In mezzo a mille pericoli si spingono verso un mitizzato Sud, attraverso un paesaggio urbano in disfacimento, dove anche la natura si sta dissolvendo, verso il mare che non il figlio non mai visto e che non è più blu, dove forse ci sarà qualche maggiore possibilità di sopravvivenza, anche se speranze per il futuro non ce ne sono più. Il ragazzino è terrorizzato, annichilito dagli orrori nei quali si imbattono in continuazione (memorabile perché non gratuita la scena veramente horror, durante la scoperta della “riserva” di cibo nella cantina). Non ha mai conosciuto vita diversa da questa, dove anche un sorso da una polverosa lattina di coca cola può sembrare un nettare. Nonostante tutto il figlio continua a non condividere la durezza del padre nella lotta per la sopravvivenza, ma sa che, nel momento stesso che se ne dimenticasse, se pensasse di potersi permettere uno di quei gesti che il padre gli ha comunque insegnato, a salvaguardia della sua essenza di essere umano, diventerebbe letteralmente carne da macello.

Il film, tratto dal romanzo di Cormac McCarthy, poggia interamente sulle spalle di Viggo Mortensen, che offre un’interpretazione di grande intensità, lacero, magrissimo, incrostato di sporcizia, negli occhi disperazione e tenerezza. Il figlio è il giovanissimo Kodi Smit-McPhee, dai morbidi e innocenti lineamenti. Il veterano Robert Duvall, irriconoscibile sotto strati di sporcizia, è un vecchio vagabondo incontrato lungo la strada, quasi irriconoscibile anche Guy Pearce, che compare brevemente nel finale, mentre Charlize Theron è la luminosa, amata moglie, perduta e ricordata in una luminosità calda e dorata che rappresenta gli unici momenti di colore in una fotografia dalle tonalità quasi seppia, senza luce come il mondo circostante. Dirige l’australiano John Hillcoat, che aveva in precedenza realizzato l’anomalo, interessante western La proposta (inedito), con Guy Pearce. Se il film vuole inquietare, mostrando come basterebbe poco per regredire peggio che all’età della pietra, ci riesce benissimo, insinuando nel cuore un’angoscia che prenderà maggiormente chi abbia affetti quali figli o nipoti in tenera età e si sentisse così più coinvolto dal dramma del padre. E si angoscia comunque lo spettatore perché in cuor suo sa che finirebbe così per davvero, e velocemente, perché se la razza umana ha preso il sopravvento su tutte le altre sarà perché è la più intelligente ma anche perché è di gran lunga la più feroce. Ma se la vita si riduce a questo, vale ancora la pena di essere vissuta, mangiare o essere mangiati e nient’altro? Sopratutto però il film resta la storia di un rapporto d’amore, il Rapporto d’Amore per eccellenza, quello tra padre e figlio, con il naturale istintivo terrore che ogni genitore ha all’idea di abbandonare le proprie creature da sole in questa valle di lacrime. Senza arrivare ai tragici eccessi del film, quello è il ruolo esemplare di un genitore, proteggere a qualunque costo dal buio che si avvicina, keep the vampires from your door, instillare giorno dopo giorno quei principi di civiltà senza i quali torneremmo ad essere le belve che eravamo, alimentare nell’anima del proprio figlio la fiamma dell’umanità, intesa come carità, cultura, senza farla mai spegnere, per evitare che un giorno le tenebre si chiudano su di lui, riducendolo ad un cieco divoratore dei suoi simili, anche se la fine incombe. Se non è una metafora dei nostri giorni…

A cura di Giuliana Molteni