Un po’ Galaga, un po’ Beamrider: Radar Scope è un gioco che esce nelle sale giochi americane con ritardo e poca grinta. Nonostante venga apprezzato in Giappone, la giovane Nintendo of America si trova presto con le spalle al muro davanti a un titolo pubblicato con sei mesi di ritardo rispetto ai primi annunci, un periodo necessario per far giungere via nave i tremila esemplari ordinati da Minoru Arakawa, presidente della divisione statunitense nonché genero del granitico Hiroshi Yamauchi. La moda degli sparatutto spaziali stava vacillando, anche per “colpa” di Pac-Man, uscito nel 1980, e causa di una follia collettiva destinata a cambiare il volto delle sale giochi, fino ad allora regno di astronavi, cannoncini e alieni minacciosi quanto pixellosi. Davanti alla Pac Mania, Radar Scope non riesce a far breccia nel cuore degli yankee, considerando anche che sbarcherà (letteralmente) in America nel Gennaio 1981, decisamente fuori tempo massimo.
Radar Scope è però uno dei primi titoli su cui lavora un giovane illustratore entrato a far parte della corte di Nintendo nel 1977, dopo essersi laureato con il massimo dei voti in disegno tecnico all’università di Kanazawa. Ma ci arriviamo presto: il flop di Radar Scope lascia circa duemila unità invendute nei magazzini di Nintendo of America, una compagnia tanto giovane quanto a rischio di prematura chiusura, specie dopo che Yamauchi interpreta il fallimento nel peggiore dei modi, meditando di dedicare il futuro di Nintendo ai vendutissimi Game & Watch e alle console domestiche. Tuttavia, carico della voglia di riscattarsi, Arakawa chiede al suocero un nuovo gioco con cui rimpiazzare i cabinati invenduti, un kit con cui modificare tutti quei Radar Scope in un successo in grado di fruttare dollari a palate. Mica facile, chi se ne dovrebbe occupare? E, soprattutto, come esercitare di punto in bianco il richiamo per un gioco che esce bello e spavaldo in piena Pacmania? Yamauchi decide di affidare la patata bollente a Gunpei Yokoi, un genio che più di una volta aveva risollevato Nintendo da situazioni critiche.
La storia vuole che venne sgamato da Yamauchi in persona durante una visita di controllo, mentre assemblava le sue invenzioni con il materiale dell’azienda, durante i suoi turni da addetto alla manutenzione dei macchinari. Il giocattolo che aveva messo assieme sarebbe diventato l’Ultra Hand, un successo incredibile negli anni Sessanta, con un milione di pezzi venduti. Solo che Yokoi è letteralmente oberato dal lavoro, perché i Game & Watch, come già detto, vendono tantissimo, spopolano tra i giovani e non solo tra i pendolari, come Nintendo aveva inizialmente pronosticato. Quindi prende in considerazione Shigeru Miyamoto, quel ventisettenne di Sonobe che aveva già lavorato su titoli quali Sheriff o Space Fever, vuoi come grafico, vuoi come illustratore. La sua giovinezza è fatta di una profonda passione per l’arte, i manga e la cultura americana, doti che lo rendono, agli occhi di Yokoi, il soggetto ideale a cui relegare la produzione del nuovo gioco, che lui avrebbe supervisionato passo passo con la bonaria severità di un sensei di arti marziali. Perché Yamauchi si sentiva nostalgico degli anni Sessanta, o forse il suo fiuto per gli affari si era messo in moto alla grande, vai a saperlo.
Fatto sta che decide di creare una nuova linea di giochi basati su Braccio di Ferro, personaggio che, proprio negli anni Sessanta, aveva portato grandi incassi a Nintendo, legando volto e pipa del marinaio creato da Segar alla produzione di hanafuda e karuta, le carte da gioco che erano alla base della stessa genesi di Nintendo nel 1889. Braccio di Ferro sarebbe tornato assieme alla sua cricca nel mondo Nintendo grazie a una nuova serie di Game & Watch, i Wide Screen, e sarebbero diventati i protagonisti del fantomatico gioco in grado di tirare fuori dalla tomba quei duemila Radar Scope che marcivano nei magazzini del Segale Business Park alla periferia di Seattle, nuova sede di Nintendo of America, stavolta dalle parti del Pacifico, tanto per ridurre i tempi di consegna dal Giappone. Yokoi, amante dell’animazione, pensò subito a un vecchio episodio del cartone animato che lo aveva conquistato da piccolo, in cui Olivia sonnambula si avventurava in un cantiere in costruzione, evitando salti nel vuoto e varie disavventure per il rotto della cuffia. Un’idea dotata del suo fascino, ricordate Sleepwalker della Ocean? Da qui nacque l’idea per questo fantomatico gioco in cui Braccio di Ferro doveva scalare un grattacielo in costruzione, evitando barili scagliati da Bluto, che se la rideva in cima allo schermo. Inizialmente il gioco si ispirava al passatempo orientale chiamato amidakuji, una sorta di lotteria in cui più linee parallele, con alle estremità partecipanti e premi, vengono collegate da linee trasversali che influenzano il percorso tra vincitore e vincita. Più difficile da spiegare che da capire, basti dire che il meccanismo è stato poi ripreso negli intermezzi bonus di Super Mario Land, un gioco guarda caso supervisionato dallo stesso Yokoi.[quotedx]Baffi e nasone donano carattere a un volto che non poteva permettersi i particolari dei giorni odierni[/quotedx]Solo che in questo modo diventava una mera questione di fortuna: il giocatore doveva sperare che il percorso da lui scelto non lo avrebbe mandato in rotta di collisione con un barile, quindi Miyamoto pensò alla possibilità di far saltare il marinaio, adibendo al gesto atletico il pulsante di fuoco di Radar Scope. Da lì fu un braccio di ferro (ahahah, lo humor…) tra Miyamoto e i programmatori della Ikegami Tsushinki, che rimanevano allibiti di fronte alle richieste espresso nel documento finale, redatto in sei mesi di brainstorming. Scrolling verticale? Diverse ambientazioni? In un mondo in cui Defender di Eugene Jarvis era l’apice della tecnologia e i videogiochi consistevano in singole schermate, l’idea di Miyamoto e del suo mentore sembravano fantascienza. Il problema più grosso fu però la King Features, che non ne voleva sapere di concedere i diritti di Popeye. I motivi al giorno d’oggi sono ignoti, ma le supposizioni invece molteplici. Può essere colpa della grafica dei giochi di allora, inadatta a rappresentare degnamente a video il personaggio, o la scarsa credibilità dell’indebitata Nintendo of America, che non offriva garanzie per un investimento redditizio. In quel periodo esce nelle sale il Popeye di Robert Altman con Robin Williams, un film che avrebbe sicuramente portato un ritorno d’immagine superiore al lavoro svolto da un importatore di videogiochi senza successi all’attivo.
Alla fine Nintendo si rimbocca le maniche, creando nuove identità in cui traslare i ruoli di Olivia, Bluto e Braccio di Ferro. La prima figura rimpiazzata è quella dell’antagonista: Bluto doveva essere in cima allo schermo, un obiettivo bello evidente per il giocatore, e Miyamoto lo sostituisce con un primate grande e grosso. L’ispirazione viene assai probabilmente dal King Kong del 1933, che metteva in scena un triangolo amoroso scomodo tra lo scimmione, Ann Darrow e Jack Driscoll, per certi versi simile a quello immaginato da Elzie Crisler Segar, ma anche dal classico della Nichibutsu Crazy Climber, il gioco che, da solo, mi rende oggi un felice possessore di Wonderswan, con lo schermo in modalità portrait e il doppio controller. Miyamoto è un frequentatore abitudinario delle sale giochi, oltre che appassionato di arti e animazione, quindi gli spunti non mancano. Sul nome dello scimmione abbiamo letto interpretazioni varie da anni, compreso quello di un errore di battitura da un improbabile quanto pleonastico Monkey Kong; è assai più plausibile che Miyamoto abbia cercato un aggettivo adatto alla cocciutaggine del primate, da lui visto come sostituto del tenace ma sfortunato rivale d’amore Bluto, piuttosto che dell’invincibile signore di tutte le scimmie, e abbia scelto un sostantivo che ne richiamasse il significato, oltre a suonare bene. Per il nostro Mario, Miyamoto traccia la figura di un adulto lavoratore, non certo un super eroe in grado di diventare gigante mangiando funghi. Il parallelismo con Braccio di Ferro è sempre alla base dei nuovi personaggi, nati come sostituti: il marinaio è burbero ma buono, lavora alacremente sulle navi ed è rivale in amore con quella canaglia di Bluto; Mario, d’altro canto, è un falegname che opera nel palazzo in costruzione dove Donkey Kong porta la sua bella. Non è perfetto, né Miyamoto vuole che lo sia, è importante che instauri una buona alchimia col primate; la sua professione deriva forse da quella del nonno di Shigeru, che era appunto un falegname.
Quando il gioco arriverà in America, il termine della doppia valenza “daiku” verrà tradotto in carpentiere, perché quello è il suo significato alternativo. Miyamoto crea il suo personaggio in stile super deformed, abbandonando la ricerca delle proporzioni perfette a favore di caratteristiche distinguibili in quei quindici pixel di altezza che ha a disposizione. Baffi e nasone donano carattere a un volto che non poteva permettersi i particolari dei giorni odierni, e il berretto evita di dover disegnare capelli, un po’ come aveva fatto nel 1979 con Sheriff. I colori sono quindi usati per garantire leggibilità all’azione, dato che il fondale è nero; i particolari come la “M” sul berretto o i guanti arriveranno in seguito; queti ultimi, anzi sono frutto del gusto degli americani, che li disegnano nei flyer pubblicitari, dato che personaggi come Topolino o Bugs Bunny li indossano costantemente.[quotesx]Prima di arrivare a chiamarsi Mario, il falegname cambia tanti di quegli appellativi da fargli rischiare una crisi d’identità[/quotesx] Prima di arrivare a chiamarsi Mario, il falegname cambia tanti di quegli appellativi da fargli rischiare una crisi d’identità: Yokoi e Miyamoto lo chiamano tra di loro affettuosamente Ojisan/Ossan, ovvero zio, signore di mezza età. Miyamoto poi desidera chiamarlo Mr. Video, intenzionato a usarlo come protagonista per i suoi titoli futuri, ma il nome non piace a Yamauchi e la divisione giapponese suggerisce agli americani di chiamarlo Jumpman, per richiamare da una parte le doti atletiche dello sprite e, dall’altra l’assonanza con un personaggio vincente come Pac-Man. Un nome che però non va a genio alla sede americana, che si ingegna per rinominare parte del cast. Lady, la ragazza in pericolo che prende il posto di Olivia ora si chiama Pauline, in omaggio a Polly, la moglie di Don James, manager dei magazzini di Nintendo of America, e Mario (o Little Mario, come viene inizialmente nominato) prende il nome da Mario Segale, il proprietario del terreno su cui sorgevano i magazzini. La leggenda vuole che si precipitò come una furia per chiedere l’arretrato sull’affitto a una Nintendo of America che doveva ancora decollare, in attesa del kit con cui trasformare Radar Scope in un campione d’incassi, accendendo l’immaginario di Arakawa e del suo staff. Il nome piace anche in Giappone, specialmente a Miyamoto che non aveva proprio digerito quel Jumpman. E Donkey Kong diventa un successo, grazie al passaparola: un po’ come avvenne nel Andy Capp’s Tavern a Sunnyvale per Pong, il gioco debuttò dalle parti di Seattle nel locale The Spot Tavern, conquistando i cuori e le monetine dei giocatori.
Tutto quello che segue, compresa la mania per i cosiddetti Kong Game è un’altra storia, meritevole di un approfondimento in altra sede; a noi interessa aver tracciato le origini e il DNA di Mario. Nelle recensioni storiche pubblicate negli scorsi giorni, mi sono divertito a inserire spunti di riflessione riguardo la genesi dei diversi capitoli, opportunamente mimetizzati in un racconto romanzato, ma non troppo: Super Mario sembra una fiaba, poiché nasconde riferimenti a Alice in Wonderland di Lewis Carroll,a racconti occidentali e al Viaggio in Occidente tanto caro a Miyamoto. Da lì l’idea del fungo che altera le dimensioni del protagonista, del germoglio magico che cresce fino cielo, della nuvola cavalcata da Lakitu o dello stesso aspetto di Bowser, che ricorda Niúmówáng, ovvero il Re Toro Demoniaco, almeno nella visione di Tezuka e Miyamoto. Allo stesso modo, in occidente ci siamo beccati il rimaneggiamento di Yume Kojo: Doki Doki Panic al posto del “vero” Super Mario Bros 2, perché questo era ritenuto troppo difficile e frustrante rispetto alla perfezione del predecessore da Howard Phillips in persona, il Game Master, primo editore e colonna portante di Nintendo Power, con i suoi capelli rossi e papillon d’ordinanza. I mondi di Super Mario Bros 3, ancora, sono ben distinti probabilmente grazie al viaggio di R&D4 a Disneyland nel 1987, dove Miyamoto, Tezuka e il resto dello staff si trovano davanti ai mondi ideati da Walt Disney (Frontierland, Tomorrowland, Fantasyland…), tra di loro estranei ma uniti nello stesso universo. Si potrebbe organizzare una rubrica su Super Mario mensile qui su Gamesvillage, e tra un anno saremmo ancora carichi di argomenti, curiosità e aneddoti. Non male per un idraulico italiano sovrappeso, nato come rimpiazzo di un marinaio collerico.