I picchiaduro sono un po’ come i pugili: ne esistono di tutte le categorie e basta osservarli in azione un paio di round per intuire a quale scuola appartengano e quali siano i loro punti di forza. Se un brand completo quale Street Fighter richiama immediatamente il sommo Muhammad Ali, Art of Fighting non può in tal senso che essere il Tyson della situazione.

Proprio come Iron Mike, il titolo targato SNK non è d’altronde passato alla storia per la propria tecnica sopraffina, bensì in virtù di un’esuberanza a dir poco innaturale, che andava declinandosi tanto nella forma quanto nei contenuti. Se siete di quelli che ebbero l’onore di godersi in prima persona il debutto arcade di questo peso massimo saprete fin troppo bene a cosa ci riferiamo. Agli altri, basterà probabilmente assicurare che, prima del suo arrivo nelle sale giochi, nessuno aveva mai posato gli occhi su un rullakartoni dotato di una tale possanza grafica.

Laddove gli la maggioranza degli esponenti di settore erano soliti contenere ogni eccesso, il titolo prodotto da Hiroshi Matsumoto tendeva in altre parole ad esaltarsi e non ci riferiamo alle sole dimensioni degli sprite principali, ma anche al maniacale coefficiente di dettaglio che li caratterizzava. Abbinando al tutto routine di animazione espressamente concepite per esaltare l’iperbolica fisicità dei combattenti, ne sarebbe scaturito un affresco visivo persino ridondante che, oggi come allora, ci appare come la più brutale prova di forza mai profusa dalla Neo Geo Technology.

Quale naturale estensione di un concept più orientato a travolgere l’utenza che a stuzzicarne progressivamente l’interesse, il gameplay di supporto avrebbe accantonato la tipica ricerca di bilanciamento perseguita da altre proposte di genere in favore di un approccio più impetuoso alla lotta. Né conseguivano match dalla durata pressoché inferiore agli standard, che tendevano a svilupparsi nell’economia di irruenti scambi di colpi piuttosto che sul ragionato alternarsi di affondi e manovre evasive.

Come prevedibile, dette peculiarità incontrarono la diffidenza degli utenti più tecnici, molti dei quali individuarono in una modalità in singolo rea di limitare la scelta del proprio alter ego ai soli personaggi di Ryo Sakazaki e Robert Garcia un ulteriore freno alle proprie velleità tattiche. Al netto di questa restrizione, resa peraltro ovviabile dalla presenza di una valida sezione multiplayer, Art of Fighting non dovette comunque faticare più di tanto per imporsi come uno dei prodotti più gettonati della sua epoca, né per riscuotere il generale consenso della stampa specializzata.

Avendo da poco abbracciato una nuova politica aziendale volta alla repentina serializzazione di ogni brand di successo, la SNK avrebbe fatto ovviamente il possibile per regalare un pronto erede alla sua mastodontica hit. A due anni di distanza dal rispettivo debutto, le sale giochi di tutto il mondo accolsero così l’imponente case di Art of Fighting 2, con a seguito tutte le novità di cui era foriero. Libero da una storyline invadente quanto quella proposta in precedenza, il gioco offriva stavolta l’opportunità di scegliere il proprio beniamino da un rooster comprensivo di 12 lottatori e accedere così ad un ventaglio più ampio di stili marziali con cui cimentarsi.

Questa soluzione non influiva chissà quanto sul gameplay, il quale rimase anzi inalterato, ma garantì ad esso quella versatilità necessaria a stuzzicare l’attenzione di chi aveva attribuito al suo predecessore i meri connotati dell’esibizione tecnica. Non fosse stato per l’odioso sbilanciamento del coefficiente di difficoltà, per via del quale anche il superamento del terzo scontro previsto dalla modalità Arcade vantava connotati da impresa eroica, neanche il più accanito detrattore della serie avrebbe potuto negare a questa sua seconda iterazione tutti gli onori del caso…

A causa di questa sbavatura, il titolo che tutti attendevano come la definitiva consacrazione del marchio finì invece per deludere le aspettative generali e spingere la stessa SNK a rivalutare l’entità del proprio investimento. Prima di avventurarsi nella stesura di un terzo sequel condannato ad infrangere i record segnati da Art of Fighting 2 in fatto di budget e resa visiva, i vertici della Major di Osaka preferirono difatti congelare ogni piano a riguardo. Fino al 1996 Ryo, Robert e parenti più stretti dovettero in tal senso accontentarsi di figurare come guest star nel gigantesco cast di The King of Fighters, la storica cross-over saga che, proprio in quegli anni, viveva le prime fasi della propria storia.

Nel frattempo, con l’avvento di opere a matrice poligonale come Virtua Fighter e Tekken, il mondo dei picchiaduro a incontri registrava una rivoluzione radicale che si sarebbe purtroppo rivelata nefasta per la sorte mediatica del terzo episodio della serie. Quando Art of Fighting 3: The Path of the Warrior vide la luce delle sale giochi, il pubblico guardava difatti ai titoli di matrice bidimensionale come reperti di un’epoca ormai tramontata, tanto che quasi nessuno sembrò accorgersi dell’encomiabile sforzo profuso dai responsabili del progetto nel tentativo di infondergli nuova linfa dinamica.

A fronte di un comparto visivo interamente rinnovato, in cui spiccavano routine di animazione fluide ed articolate come poche altre volte se n’erano viste in un prodotto di genere, il gioco passò in effetti inosservato ai più, suscitando la sola attenzione dei fan più coriacei. Anche se affascinati dal maggior spessore tecnico emerso dal gameplay, questi ultimi non mancarono in ogni caso di puntare ancora una volta il dito contro il bilanciamento del coefficiente di sfida, reso stavolta troppo malleabile dall’introduzione di attacchi speciali imparabili.

Così come accade per gli atleti, il tempo non è stato certo galantuomo nei confronti di Art of Fighting: in assenza di ulteriori produzioni volte ad estenderne la carriera il suo ricordo è andato infatti svanendo dalla memoria popolare fino a rimanere patrimonio di una ristretta cerchia di appassionati. Per tutti coloro che non hanno mai dimenticato quei giorni di mastodontiche scazzottate, il brand incarna tuttavia ancora oggi una pagina speciale negli annali dei picchiaduro che molti neofiti del settore farebbero senz’altro bene a studiare!