Giochi di parole discutibili, slogan da telefono azzurro e allusioni più o meno velate alla sfera sessuale: a dare una semplice occhiata agli spot realizzati negli ’80 per promuovere videogame, coin-op e sistemi da gioco c’è davvero di che restare imbarazzati, e non ci riferiamo soltanto alle campagne promozionali organizzate da brand minori e società alla disperata ricerca di visibilità.

Tra le aziende le cui iniziative pubblicitarie attentarono gravemente alla credibilità del business videoludico figurano difatti anche brand di prim’ordine come Atari, Mattel, Sega, SNK e Nintendo con quest’ ultima ad inanellare un’insospettabile serie di autogol sessisti.

Volendo smussare gli angoli di una questione che, per dette aziende, deve senz’altro risultare tuttora spigolosa si potrebbe senz’altro ricondurre questi scivoloni mediatici al particolare periodo storico in cui si verificarono ed interpretarli come la goffa espressione di un’industria ancora troppo acerba per “sapersi vendere” con adeguata consapevolezza…

Ma quando qualcuno cerca di venderti un Game Gear presentandotelo come la migliore alternativa alla masturbazione è veramente difficile trovare una scusante che non suoni altrettanto ridicola; anche perché stiamo pur sempre parlando dei luccicosi anni’80, altrimenti noti come la culla dorata del business promozionale!

E allora, la radice del problema è forse da ricercare altrove e, più nel dettaglio, tra le mura delle agenzie pubblicitarie cui le società di cui sopra dovettero evidentemente affidarsi per lanciare i propri prodotti.

A giudicare dai luoghi comuni evidenziati dagli spot, non è in tal senso difficile ipotizzare che i responsabili della campagna abbinata al lancio di una macchina quale il Game Boy avessero un’idea piuttosto vaga del medium di riferimento, né tanto meno supporre che non conoscendo appieno neanche il pubblico di riferimento si sia scelto di tirare in ballo le solite allegorie pruriginose o addirittura di scopiazzare format cari al settore abbigliamento…

Se queste bieche manovre vantavano almeno una propria filosofia di base che, per quanto opinabile, poteva comunque attrarre una certa fetta della platea, è tuttavia impossibile individuare un qualsiasi coefficiente di appetibilità alle pubblicità che ritraevano mortificati figuranti intenti ad armeggiare con Joypad e Arcade Stick…

… Agghindati spesso e volentieri come comparse dal film porno, molti di essi parevano non avere la minima idea di dove si trovassero, né la dignità per rifiutare questo genere di lavoro.

Come alcuni ricorderanno, questo grottesco andazzo si sarebbe protratto ben oltre i primi anni ’80, basti pensare che, per scorgere le prime iniziative pubblicitarie degne, di questo nome si dovette attendere la discesa in campo di Sony.

Il bad taste, tutti lo sanno, è comunque duro a morire: persino in seguito alla rivoluzione commerciale seguita al lancio della prima Playstation, il pubblico fu in tal senso costretto a mandare giù qualche boccone acido.

Ci riferiamo a spot allucinanti, come quello volto ad annunciare l’arrivo di Wipeout XL con tanto di incontinenza urinaria a seguito, al censurabile manifesto legato alla promozione della PSP White in cui una donna ariana afferrava per la gola un giovane ragazzo di colore e agli ads proposti a supporto di Soul Calibur V in cui i prorompenti seni di Ivy oscuravano ogni altro aspetto del gioco.

Complici gli orwelliani controlli odierni, il costante supporto di approfondite indagini di mercato e la certosina attenzione esercitata al fine di evitare ogni tematica in grado di ledere al politically correct, si è tentati di considerare l’Era del “bad advertising” come un capitolo pressoché chiuso, ma guai ad abbassare la guardia: lo scivolone è sempre dietro l’angolo!