Dura la vita del publisher quando toccava vendere un pugno di pixel come fosse la roba da esporre agli Uffizi! Prima che i sistemi disponibili fossero in grado di tradurre su schermo le ambizioni dei rispettivi sviluppatori, toccava inventarsi davvero di tutto pur di conferire adeguato appeal ad un prodotto.

Via libera, dunque, a tutta una serie di trovate commerciali più o meno dignitose delle quali la copertina sgraffignata al blockbuster cinematografico di turno restava senza dubbio quella più gettonata.

La strategia era semplice: individuare l’attore di tendenza, (sotto) pagare un grafico per realizzare un’illustrazione che ricordasse la locandina del suo ultimo film o magari una scena che lo ritraesse in posa iconografica e spiaccicarci sopra il titolo del videogame…

Sorta in ambito Personal Computer, ma importata ben presto anche in campo console, questa procedura interessava essenzialmente i titoli d’azione e trovava i propri punti di riferimento nei volti di star come Arnold Schwarzenegger, Mel Gibson, Harrison Ford e Sylvester Stallone.

Inizialmente il fenomeno interessò brand minori e produzioni di basso profilo, salvo poi sfuggire di mano fino a coinvolgere brand di primo piano. Tra le aziende più attive in tal senso, Konami avrebbe ad esempio sfruttato questo stratagemma per gran parte degli anni ’80.

Proverbiali, in questo senso, i riferimenti a Terminator e Predator immortalati sulle confezioni di Metal Gear Solid e Contra. Se Taito si prese la briga di sgraffignare uno dei più noti primi piani di Han Solo e Lando Calrissian per dare un tono alla cover di Chase H.Q., quei volponi della System 3 scelsero invece di clonare il buon Steven Seagal visto nel manifesto di “Nico” salvo poi piazzarlo sulla scatola di International Karate +.

Come facile immaginare gli esempi sarebbero migliaia, tanto da poter realizzare approfondimento a tema solo per analizzare il caso Blade Runner a cui un Mean Streets della Access rubò ben più della locandina.

Dovendo comunque individuare il simbolo di tutto il movimento preferiremmo citare il celeberrimo Duke Nukem 3D, la cui immagine di riferimento non era altro che una variazione sul tema de “L’Armata delle Tenebre” di Sam Raimi…

Di fronte a cotanta scopiazzatura viene spontaneo domandarsi come riuscissero a farla franca. Possibile che, in tanti anni di speculazione a riguardo, nessun esponente dell’industria cinematografica si sia mai imbattuto in uno di questi falsi?

La risposta è sostanzialmente ovvia: finché il plagio non era tanto sfacciato da evocare lo spettro della contraffazione, si tendeva a lasciar correre anche perché, sotto sotto anche questa poteva rappresentare una forma di pubblicità indiretta.

Da qui l’ideale apertura a tutta una serie di alterazioni grafiche più o meno invasive, gran parte delle quali tese a modificare l’immagine originale quel tanto che bastasse per sottrarsi ad eventuali responsabilità legali.

Si passava così dalla semplice variazione cromatica a pittoreschi mosaici in grado di mischiare immagini legate a più pellicole come accaduto con Contra, la cui cover affiancava lo Schwarzenegger di Predator all’Alien di Ridley Scott.

Con l’arrivo degli anni ’90 e, più nel dettaglio, in seguito alla maturazione mediatica dell’industria favorita dal boom della Playstation, il trend sarebbe fortunatamente andato incontro ad una netta inversione di marcia, per poi finire ai margini del mercato.

Guai tuttavia a pensare che l’arte della scopiazzatura in sé sia tramontata: si sono soltanto fatti più furbi.